Recensire un thriller come The life of Davi Gale di Alan Parker è complicato perché l’incastro costruito dal regista inglese è di quelli delicati. Se si svela un particolare si rischia di scoprire l’intero gioco.
Il tema è la pena di morte. Come in altre occasioni, Parker ha diretto una pellicola impegnata dal punto di vista politico e sociale. Ma a differenza di Mississippi Burning, solo per citare un film di grande impatto emotivo, The life of David Gale è meno ruvido e sporco. Si tira di fioretto piuttosto che di sciabola.
David Gale (Kevin Spacey) è un professore di filosofia, e siamo decisamente lontani dal Gene Hackman rozzo agente Fbi che combatte il fanatismo razziale con mezzi poco ortodossi e che, nel frattempo, svezza il suo collega pivello William Dafoe. David Gale usa il più raffinato degli esercizi filosofici: il metodo della confutazione socratica. E non poteva essere altrimenti, visto che a scrivere la sceneggiatura è stato l’ex professore di filosofia, Charles Randolph.
Protagonisti della vicenda sono un governatore modello Bush (la storia non a caso è ambientata nello Stato del Texas), un’attivista contrario alla pena capitale (David Gale) e paradossalmente condannato a morte per aver ucciso e stuprato Constance (Laura Linney), la sua compagna di lotta, e infine, insieme ad altri attivisti, una coppia di giornalisti (Kate Winslet, e Gabriel Mann).
Attraverso questi personaggi, Parker ha articolato una serie di intrecci cercando l’equilibrio delle parti piuttosto che la difesa radicale di un singolo punto di vista. Il pubblico è stimolato a ragionare, liberato dall’obbligo di immedesimarsi con un singolo protagonista e potendo osservare le vicende da un luogo d’osservazione privilegiato.
Opinioni in gioco che non riguardano propriamente l’essere a favore o contrari alla pena di morte. Che sia qualcosa di eticamente e giuridicamente sbagliato è dato per scontato. Provocatoriamente, l’argomento in discussione è il metodo di lotta più opportuno per arrivare alla sua eliminazione. Allora, con quali mezzi si può arrivare ad abolire la pena di morte?
In primo luogo, c’è chi è contrario sulla base di un credo rigidamente morale. Una posizione che analogamente viene esibita in un celebre film duro e puro: Dead man walking, la pellicola di Tim Robbins con Susan Sarandon, nella quale il condannato a morte (Sean Penn) è volutamente rappresentato in modo da non suscitare la compassione del pubblico. Chi è radicalmente avverso alla pena capitale, facendone una questione di principio, non ammette trattative di sorta e si disinteressa della colpevolezza o innocenza del condannato. Ideale più che condivisibile, ma fino a che punto efficace politicamente? Chi, dall’altra parte della barricata, è a favore della pena di morte non fa altro che reagire schierando le proprie truppe e limitandosi al muro contro muro.
Scalando verso posizioni più pragmatiche, si passa a coloro che sostengono che l’iniezione letale o la sedia elettrica non funzionano come deterrenti al crimine. Anche in questo caso, però, non è semplice convincere la parte avversa, pronta a ricordare la fine cruenta delle vittime e la sete di vendetta dei familiari. Inutile citare la lunga lista di film che in modo neanche tanto ambiguo ammiccano addirittura all’idea che ci si debba far giustizia da sé. E da questo punto di vista, Bowling a Columbine risulta la più potente critica sociale e culturale contro l’ideologia giustizialista americana.
C’è infine chi punta sul ragionevole dubbio. Bisogna fare attenzione, però, perché gli innocentisti potrebbero trovarsi nella condizione paradossale di corroborare la tesi dei giustizialisti: se l’errore viene scoperto prima dell’esecuzione si dimostra la funzionalità del sistema. Un’ingenuità compiuta anche in quei film che salvano il condannato a morte all’ultimo minuto.
L’argomento dell’errore giudiziario o del ragionevole dubbio si è comunque dimostrato strategicamente efficace. E’ il caso del governatore dell’Illinois (non più un film ma cronaca vera e propria) che ha concesso una moratoria commutando tutte le condanne capitali in ergastoli. Ad incidere in questo cambio di rotta, hanno contribuito sia l’elevato numero delle condanne inflitte a imputati afroamericani e ispanici sia l’impossibilità degli accusati poveri di avvalersi di una difesa qualificata. Inoltre, si è constatato che quando si trattano casi presumibilmente da pena di morte, intervengono condizionamenti politici e mediatici che frequentemente pregiudicano il corretto corso delle indagini.
E il film di Parker? Non lo abbiamo dimenticato. Anzi, lo abbiamo preso molto sul serio cercando di assecondare le provocazioni del regista e, al tempo stesso, non svelando le sorprese che la trama riserva agli spettatori. E’ un thriller che, però, ha come obiettivo primario e meritorio il far pensare. Ed è necessario riflettere su un argomento così delicato, se è vero che nei civilissimi Paesi europei, sull’opportunità di introdurre la pena di morte, l’opinione pubblica è spaccata a metà esattamente come quella americana.
(Mazzino Montinari)
Sceneggiatura: Charles Randolph. Fotografia: Michael Seresin. Musiche: Jake Parker, Alex Parker. Montaggio: Gerry Hambling. Interpreti: Kevin Spacey, Kate Winslet, Laura Linney, Gabriel Mann, Matt Craven, Rhona Mitra, Leon Rippy, Jim Beaver. Stati Uniti, 2003