Palma d'Oro a Cannes 2002
Ci sono voluti cinquanta anni perché Roman Polanski avesse la forza di tradurre per lo schermo il romanzo autobiografico di Szpilman, e la determinazione di rivivere il dolore e di socchiudere la porta della memoria, riattraversando il ghetto di Varsavia ne "Il pianista", Palma d'Oro a Cannes, che è il film della maturità e della ritrovata tranquillità interiore, paradossalmente ottimista e sarcastico nell'arte quotidiana della sopravvivenza, freddo ma emotivamente lucido, lontano dalla prosa sofferta e disperata di Primo Levi. Polanski, tra elisione e documento, ed incubi chirurgicamente anestetizzati, costruisce, con umorismo autodistruttivo e romanticismo nero, il ribaltamento prospettico della figura tormentata dell'ebreo errante, rinchiudendolo come un insetto in una soffitta, in un racconto delimitato dai muri, dai confini e dalle barriere insuperabili, rovine dimenticate, con tocchi spiazzanti di surrealismo, alla ricerca della fuga dal "cul de sac" della violenza e dello sterminio.
"Il pianista" è armonizzato sulla creatività ed espressione artistica e sull'aspirazione alla vita, tra una sonata di Schubert e una suite di Bach, filmato seguendo altri sguardi dalla guerra, con una fotografia livida che riproduce l'effetto dell'epoca. Dopo una prima parte tradizionale, introduzione necessaria a penetrare la follia dei rastrellamenti e delle deportazioni con uno stile essenziale e controllato, sempre a disagio, l'Autore adotta, poi, il senso di intrappolamento dell'artista, la propensione naturale alla solitudine ed all'isolamento dalla realtà, con una fedeltà assoluta al testo e la materializzazione di una guerra, spiata ed osservata dalla finestra, da spettatore passivo, come i bombardamenti televisivi ripresi dalla CNN, senza scansioni o accelerazioni drammatiche, costruendo un rifugio nel conflitto eterno tra storia, menzogne, ufficiali, vicende personali. E' un film in cui l'acquisto della tessera della vita costa molto di piuù di una montagna di zloty, profondamente polanskiano, cercando l'astrazione dalle urla e dal rumore delle pallottole nei notturni di Chopin, eseguiti usando tutta la tastiera del dolore per comunicare emozioni, distacchi, imbarazzi. Se ne "La morte e la fanciulla" il terrore dell'incontro restava isolato nella vendetta della vittima sull'aguzzino, e ne "L'inquilino del terzo piano" l'odio paranoico ed i condizionamenti sociali e sessuali avevano il sopravvento sull'identità perduta, ne "Il pianista" la prospettiva resta, ambiguamente, alterata, infinitamente più sottile, dentro l'avventura ottimista dell'ebreo polacco che sopravvive per istinto e fortuna. Chi si aspettava una partitura sulla mostruosità e l'orrore resterà deluso e disorientato, perché l'autore, dentro l'assurdità della tragedia, ha composto la sua sinfonia "politicamente umana" ispirato dalla speranza, con metamorfosi e momenti kafkiani, con un andamento gioioso sulla dignità sulla dignità ritrovata, adattando il tempo ed il punto di vista del musicista lasciato e dimenticato tra le macerie, in cui odio e ragione si riaccordano tra le note salvistiche della Ballata n. 1 in sol minore di Chopin.
(Domenico Barone)
Sceneggiatura: Roland Harwood dal romanzo di Wladyslaw Szpilman. Fotografia: Pawell Edelman. Musiche: Wojciech Kilar. Interpreti: Adrien Brody, Emilia Fox, Ed Stoppard, Frank Finlay. Produttori: Roman Polanski e Alain Sarde. Distribuzione: O1 Distribution. Origine: Francia, 2002.