Capita con Prendimi l'anima quello che è già capitato con altri film di Roberto Faenza, come i precedenti Marianna Ucrìa e Sostiene Pereira entrambi tratti da romanzi (di Dacia Maraini l'uno, di Antonio Tabucchi l'altro).
Capita che i più esigenti, o gli incontentabili, o quelli che pregiudizialmente arricciano il naso al cospetto di film che non fanno programmatica e aggressiva professione di postmodernità, si dichiarino insoddisfatti da un cinema colto, elegante, intelligente, nobile: diligente, dicono, e corretto, ben costruito - sì - ma secondo loro non abbastanza inventivo. Senza picchi. Che non cambia il corso dell'espressione cinematografica.
Non che l'obiezione sia del tutto priva di fondamento (ma quali, e quanti, sono i grandi inventori di cinema?), tuttavia sta di fatto che Prendimi l'anima (se volete puntualizzando che non è cinema di clamorosa, trascinante invenzione: ma quante volte e per quanti dovremmo ripeterlo?) è il classico 'bel film'.
All'incrocio di passioni che ha già più volte fatto coabitare - quella del ricercatore, quella del lettore colto e curioso, quella del costruttore di spettacolo internazionale di livello - Faenza ha messo insieme il mosaico di una storia eccezionale che pezzo per pezzo andava inseguendo da oltre vent'anni. Da quando nel 1980 lesse il libro dello psicoanalista Aldo Carotenuto "Diario di una segreta simmetria" che svelò la straordinaria vicenda di Sabina Spielrein.
Nata nel 1885 da un'agiata famiglia ebrea di Rostov, in Russia, nel 1904 la fragile e sofferente Sabina fu accompagnata dai genitori alla clinica psichiatrica diretta dal professor Bleuler a Zurigo dove, sotto la diagnosi di isteria, fu affidata alle cure del non ancora trentenne Carl Gustav Jung. Il quale applicando in via sperimentale e non senza la circostante diffidenza i metodi del suo maestro viennese Siegmund Freud riuscì a condurre la ragazza alla guarigione. Non senza però che il 'trattamento' si fosse trasformato in una travolgente passione (annotata dalla giovane in un diario tenuto tra il 1909 e il '12: almeno questa è la parte fortunosamente ritrovata) dapprima assecondata dal terapeuta e poi troncata chissà quanto per coscienza deontologica o quanto per rispetto delle convenzioni sociali e per timore di uno scandalo. Sta di fatto che Sabina, siamo negli anni Dieci, compie e con successo studi di medicina e di psichiatria affermandosi a sua volta nella comunità psicoanalitica al punto che Freud svilupperà delle teorie proposte da lei.
Ma se il film, sottolineando il percorso amoroso, tralascia il conseguente impegno scientifico e le successive relazioni di Sabina con i maestri della psicoanalisi (documentate dal carteggio Spielrein/Jung/Freud che il libro di Carotenuto rese noto), limitandosi semmai a seminare il dubbio sulla loro statura morale di uomini del loro tempo, esso aggiunge invece molti altri tasselli di una biografia durata ancora trent'anni, la cui mancanza il regista rimprovera alle limitate attenzioni - troppo tecniche, dice, e troppo poco umane - portate al caso Spielrein dal succedersi di studi e pubblicazioni: dopo l'analista italiano, anche di Bruno Bettelheim.
Sabina, ancora in Svizzera, si sposa ed ha una figlia. Prima che Lenin muoia torna in Russia e si immerge appassionata e fiduciosa nel clima rivoluzionario partecipando con le sue competenze psicopedagogiche all'esperimento avanguardistico di una scuola materna ispirata a criteri libertari, il cosiddetto 'asilo bianco'. Che però, con il progressivo irrigidimento del regime staliniano che nel '36 arriverà a bandire la psicoanalisi, verrà chiuso d'autorità (ma il figlio del dittatore, Vasili, ne era stato allievo sia pur sotto falso nome).
Sappiamo infine che Sabina muore nel '42 per mano degli occupanti nazisti insieme ad altri ebrei nella sinagoga di Rostov.
Faenza ha rintracciato l'ultimo superstite, 84enne, tra i bambini che all'inizio degli anni Venti frequentarono l'asilo bianco, figlio di colei che ne era stata la fondatrice, e ne ha raccolto la testimonianza riversandola nel film.
E, sulla falsariga della vera ricerca condotta sulle disperse tracce della storia di Sabina da una sua nipote, il regista ha inventato una seconda e speculare storia contemporanea: quella di una giovane parigina di nome Spielrein che batte a fatica gli archivi della Russia postsovietica animata dal desiderio di ricomporre il ritratto e restituire piena dignità a questa misconosciuta eroina del Novecento, imbattendosi in uno studioso scozzese che decide di darle manforte non senza che nasca tra i due anche qualcos'altro.
Il personaggio è sicuramente di grandissimo appeal, e si capisce come un regista si sentisse 'chiamato' da una storia che aspettava solo di essere raccontata. Intrisa com'è, attraverso una personalità davvero emblematica che è riuscita ad incarnarne la sintesi, di tutti i passaggi fondamentali del secolo trascorso: la psicoanalisi, il comunismo, i pregiudizi infranti dalle pioniere della liberazione femminile.
(Paolo D'Agostini)
Sceneggiatura: Roberto Faenza. Fotografia: Maurizio Calvesi. Musiche: Adriano Guerra. Scenografia: Giantito Burchiellaro. Costumi: Francesca Sartori. Montaggio: Massimo Fiocchi. Interpreti: Emilia Fox, Iain Glen, Craig Ferguson, Caroline Ducey, Michele Melega. Italia, 2002