“Reality” è pieno di cose e persone reali che però potrebbero tranquillamente risultare l’opposto. Nel senso che Garrone si diverte a mescolare fiaba e grottesco, l’ingenuità dell’ostentazione ed il pessimo gusto.
A cominciare dalla prima scena, in cui una carrozza trainata da cavalli bianchi conduce due giovani sposi nel ristorante dove si terranno i festeggiamenti del loro matrimonio.
Qui, tra gli invitati, incontriamo Luciano (Aniello Arena), che insieme alla sua famiglia assiste all’arrivo di un ex inquilino del “Grande Fratello”, invitato al ristorante per fare una comparsata di pochi minuti.
Qualche giorno dopo Luciano, che è proprietario di una pescheria nel cuore di Napoli e che per arrotondare organizza piccole truffe insieme al suo socio (Nando Paone) e alla moglie (Loredana Simioli), spinto dai figli partecipa anche lui ad un provino del “Grande Fratello”. Luciano è simpatico, nella vita di tutti i giorni si cimenta in imitazioni, intrattiene, è il punto di riferimento della sua famiglia e degli amici del quartiere e fa colpo anche sugli autori del programma, che lo richiamano per un secondo provino a Cinecittà.
Il sogno è cominciato, tutti lo festeggiano, come fosse un miracolato, ma dopo il provino di Roma, che comunque sembra andato bene, qualcosa in Luciano cambia irrimediabilmente. Ogni persona che si vede accanto - un barbone, un cliente della pescheria, un passante - gli sembra qualcuno mandato dalla produzione per osservarlo. Mancano pochi giorni all’inizio del programma ed il telefono non squilla, l’ansia cresce e alla fine si trasforma in depressione. Il “Grande fratello” lo ha scartato, le telecamere si sono accese senza di lui.
Da quel momento la sua vita comincia a vacillare, niente lo interessa più, la sua famiglia, i suoi amici e nemmeno la pescheria, che nel frattempo aveva venduto credendo che la celebrità lo avrebbe ricoperto di soldi. Trascorre le sue giornate di fronte alla tv osservando gli inquilini della casa in cui avrebbe voluto vivere e nel frattempo comincia a regalare i mobili di casa sua, quella vera, ai bisognosi e a chiunque si metta ad aspettare sotto il suo balcone. La moglie lo abbandona, e quando dopo un po’ ritorna da lui, la situazione non è più rosea di prima : “Luciano ha perso la capa”…
Guardando “Reality” viene subito in mente che questo film, se fosse uscito qualche anno fa, sarebbe diventato un termometro sociale. Il riflesso di tutta quella gente accalappiata dal sogno televisivo, che di giorno lavora e segretamente spera di invertire rotta con un colpo di fortuna.
Come sarà accolto adesso che in società la denigrazione dei reality è un fatto stabile e noto? Ora che siamo catechizzati dalle inchieste di “Terminator” Gabanelli e dai sermoni del vate Saviano e del cappellano Fazio?
“Reality”, però, va visto anche in un’altra ottica. Come un itinerario di desideri e illusioni vissuto su due livelli: il primo esteriore, Napoli, con la sua teatralità, le sue donne solidali, materne e talvolta troppo compiacenti per poter aprire gli occhi ai loro “maschi”; il secondo interiore e psicologico, Luciano, il suo candore che lo porta a credere nei sogni. Queste due dimensioni sono incastonante in una realtà di cui Garrone, volutamente, mette in risalto gli estremi, la pacchianeria, la carnalità dei personaggi, costruendo una sorta di fiaba kitsch di grande effetto dove brillano più gli elementi drammatici che quelli comici.