Regia: Ron Howard. Sceneggiatura: Peter Morgan. Scenografia: Mark Digby. Montaggio: Mike Hill, Daniel P. Hanley. Musiche: Hans Zimmer. Costumi: Julian Day. Fotografia: Anthony Dod Mantle.
Interpreti: Chris Hemsworth, Daniel Bruhl, Alexandra Maria Lara, Olivia Wilde.
Produttore: Ron Howard, Eric Fellner, Brian Grazer, Brian Oliver, Andrew Eaton.
Distribuzione: 01 Distribution.
Origine: USA, 2013.
Durata: 123'.
C’è una storia bellissima, che ha a che fare con uno sport molto amato. Ci sono due personaggi archetipici ma brillanti, non così ovvi, che si incastrano uno dentro l’altro, che si spiano e si detestano, che si respingono e si sbalordiscono, che l’uno senza l’altro avrebbero la metà del senso e delle ragioni. Niki Lauda, austriaco, pilota della Ferrari: anima da ingegnere, idee da pioniere, il cuore al traino della ragione e di un cervello sopraffino. E James Hunt, inglese, rock star della McLaren: infantile, sfrenato, testardo, talentuoso e bello come un dio greco. Dopo le prime scaramucce in Formula 3, il 1976 fu l’anno che li mise di fronte nel campionato più importante, in un’epoca in cui i piloti morivano al ritmo di due l’anno, e un 20% di rischio di lasciarci le penne sembrava accettabile anche a un animo riflessivo come quello di Lauda. Il risultato di quella stagione di corse è nei libri di storia e statistica, e sul volto di Lauda: ma se non avete visto né l’uno né gli altri, non saremo certo noi a rovinarvi la sorpresa. E non è un vezzo: Rush compie il miracolo, accende il tifo di fronte a un evento già consumato, come quando si esulta rivedendo il gol di Tardelli alla Germania. Riesce in quest’impresa, perché non parla di automobilismo ma di etica. Etica del lavoro, etica dei rapporti umani, senso del sacrificio. Riporta lo sport alla sua dimensione di metafora pura.Tifare per Lauda o Hunt, identificarsi con l’uno o con l’altro – o più facilmente confondersi con entrambi – è un esercizio che rinvigorisce lo spirito, perché racconta la tensione tra aspirazioni ovvie e inconciliabili, e aiuta a ripassare le scelte fatte: la gloria rumorosa del podio o la silenziosa soddisfazione del lavoro; l’ambizione di essere desiderati o la certezza di essere amati; l’adrenalina o la coscienza; cioè stereotipi con parecchia verità dentro. E che questa dualità omerica, vecchio viaggio nell’ego, sia stavolta riportata dentro una forma diversa e moderna di mitologia, in un contesto quasi metafisico come l’automobilismo («Molti pensano che guidare in tondo a tutta velocità sia da stupidi, ed è proprio così», dice Hunt all’inizio), aggiunge sfumature al disegno, di certo non gliene sottrae. Per questo sarebbe limitativo e un po’ ingiusto ridurre Rush a un film sui bolidi da corsa, schiacciarlo su moralismi anche comprensibili: la premessa da accettare è che nella vita di chiunque c’è una certa percentuale di rischio, quale sia non ha importanza, e la domanda che viene posta riguarda il resto, quello che viene dopo.