Regia e sceneggiatura: Wes Anderson. Montaggio: Barney Pilling. Musiche: Alexandre Desplat. Fotografia: Robert Yeoman. Costumi: Milena Canonero.
Interpreti: Saoirse Ronan, Tilda Swinton, Léa Seydoux, Ralph Fiennes, Bill Murray, Edward Norton, Jude Law, Owen Wilson.
Produttore: Wes Anderson, Jeremy Dawson.
Distribuzione: Twentieth Century Fox.
Origine: Germania, USA, 2014.
Durata: 100'.
C’è chi dice che Wes Anderson faccia film sempre uguali. E forse è vero.
Forse è vero perché si tratta di un autore caratterizzato da una cifra stilistica e un nucleo di temi narrativi talmente forti e radicati da rendere immediatamente riconoscibile il suo lavoro, qualsiasi declinazione questo abbia. Il resto, però, è questione di sfumature: e le sfumature, le gradazioni, sono quello che rendono vivo, pulsante e costantemente mutevole il mondo, il suo compreso.
In The Grand Budapest Hotel queste gradazioni sono più estreme, espandono i confini del cinema dell’americano, conquistando nuove maturità, maggiori libertà e (quindi) sempre di più il cuore dei suoi spettatori.
Questo è un film d’amore e avventura, simile in vari e inaspetatti modi a Le avventure acquatiche di Steve Zissou e a Fantastic Mr. Fox, dove affondando nello stile e nello spirito dei Lubitsch e dei Wilder che esplicitamente il regista ha dichiarato di voler omaggiare, si ragiona anche sugli aspetti carnali della vita, dal sesso alla violenza, con una ruvidità inedita ma sempre coerente con l’estetica e l’etica andersoniane.
Ma, per quanto tutto questo sia importante nell'indicare un'ulteriore crescita del regista, lo è ancor di più il fatto che The Grand Budapest Hotel non è solo l’ennesimo film di Anderson su un padre e un figlio, putativi o meno che siano.
È un film che, soprattutto, è una dichiarazione d’intenti da parte del suo autore. Che parla dell’arte e del senso del narrare, dei suoi scopi.
La costruzione è a scatole cinesi: The Grand Budapest Hotel è un film nel quale uno scrittore racconta di come il suo romanzo (il suo racconto) sia nato dal racconto orale di uno dei protagonisti delle vicende, Zero, a sua volta depositario dei racconti del concierge M. Gustave.
E nella più piccola e profonda di queste scatole c’è il senso di questo raccontare, simboleggiato dal personaggio di Ralph Fiennes: un uomo a suo modo gaudente ma non decadente, un esteta amante del bello soprattutto quando è funzionale, eccentrico ma sempre inflessibile, impegnato a combattere a colpi di educazione, amore, e profondissime dignità e dedizione (tanto professionali quanto umane) le barbarie e le cattiverie del mondo e dei suoi abitanti.
Così come l’albergo che dirige e amministra, M.Gustave è un angolo di soave e confortevole distacco dal caos che lo circonda, capace di contagiare chiunque (o quasi) con la sua irreprensibile e composta cortesia.
Una figura fuori dal tempo, dal nostro ma perfino dal suo, intrisa della stessa malinconia del film che lo racconta, perché inevitabilmente destinata al decadimento e alla rovina, a soccombere al brutto e al grigiore, all’aridità degli uomini e ai loro egoismi.