Regia: John Curran. Sceneggiatura: Marion Nelson. Scenografia: Melinda Doring. Montaggio: Alexandre de Franceschi. Musiche: Garth Stevenson. Fotografia: Mandy Walker. Costumi: Mariot Kerr
Interpreti: Mia Wasikowska, Adam Driver, Emma Booth, Rainer Bock, Jessica Tovey, Robert Coleby, Tim Rogers, Melanie Zanetti, John Flaus, Lily Pearl, Darcy Crouch, Felicity Steel, Daisy Walkabout, Roly Mintuma.
Produttore: Emile Sherman, Iain Canning.
Distribuzione: BIM Distribuzione.
Origine: Regno Unito, Australia, 2013.
Durata: 115'.
1977. La giovane Robyn Davidson parte da Alice Springs, in Australia, e decide di raggiungere l’Oceano Indiano, attraversando deserto e terre aspre, con la sola compagnia di un cane e quattro cammelli. Un viaggio (realmente avvenuto) che diventa leggendario e sembra catturare lo spirito di un’epoca.
Partendo dal romanzo autobiografico della stessa Davidson, John Curran racconta questa storia inserendosi in un filone cinematografico che ha molti rappresentanti, alcuni di grande valore (dalla "Mia Africa" di Pollack, per il taglio autobiografico e il rapporto con l’ambiente, fino al più recente "Into the Wild" di Sean Penn). Un terreno più volte battuto, dove il rischio del già visto è continuamente dietro l’angolo. E all’inizio il film di Curran sembra non volersi allontanare da certi topoi narrativi, in particolare un modo di raccontare l’ambiente e introdurvi i personaggi, che sembrano dei passaggi quasi obbligati in ogni pellicola del genere, lasciandosi così assorbire da una narrazione prevedibile e scontata.
Ma, con lo scorrere dei minuti, Curran riesce a dare un taglio preciso e definito al suo film, scegliendo di affidare al volto di Mia Wasikowska gran parte della sua riflessione e veicolando tramite il suo corpo e i suoi occhi quel desiderio di libertà, quel fascino per l’ignoto e per il selvaggio che segnava un’epoca, un sentimento comune, e che riesce a trasportare senza alcun anacronismo. Il pellegrinaggio della Davidson diventa un percorso di ricerca, una sfida contro i limiti fisici dell’essere umano e una messa alla prova della sua capacità di resistenza emotiva alla solitudine. Evitando didascalismi, Curran ci mostra una donna che perde consapevolmente (e volontariamente) ogni contatto con gli esseri umani, donandosi in modo radicale all’asprezza di terre impervie e di un deserto che percepisce davvero come tale quando si ritrova sola, del tutto. E della sua vita ci viene raccontato poco, il giusto per farcene un’idea, perché l’interesse di Curran sembra focalizzarsi su questo processo di ricerca, interiore e individuale, che caratterizza l’essere umano, al di là di ogni collocazione temporale, spaziale o appartenenza sociale.
Nulla di rivoluzionario, probabilmente, ma è raro trovare un film che racconta con tale onestà e consapevolezza una storia portata sullo schermo in tutte le salse. E grazie ad un montaggio sapiente, che tende all’essenziale e alla sintesi, Curran evita di risultare pedante, asciugando sentimentalismi e accompagnando lo spettatore in un percorso di perdita di certezze, dove il fisico della protagonista e il suo peregrinare racconta molto di più che qualsiasi verbosa voce fuori campo (eppure, il rischio sembrava aleggiare all’inizio del film) e costruendo così un racconto dal sapore retrò eppure fortemente contemporaneo.