Regia: Matthew Warchus. Sceneggiatura: Stephen Beresford. Fotografia: Tat Radcliffe. Montaggio: Melanie Ann. Musica Christopher Nightingale. Scenografia: Simon Bowles. Costumi: Charlotte Walter Line.
Interpreti: Ben Schnetzer, Bill Nighy, Abram Rooney, Paddy Considine, Imelda Staunton, George MacKay, Jim McManus, Monica Dolan, Matthew Flynn, Andrew Scott, Dominic West, Roger Morlidge, Joseph Gilgun.
Produttore: David Livingstone.
Distribuzione: Teodora Film. Origine: Regno Unito, 2014. Durata: 120'
Londra, 1984. Joe partecipa tra mille timidezze e ritrosie al Gay Pride e si unisce alla frangia più politicizzata del corteo, già proiettata sulla successiva battaglia in difesa dei minatori in sciopero contro i tagli della Thatcher. Guidati dal giovane Mark, i LGSM (Lesbians and Gays Support The Miners) cominciano il loro difficile percorso di protesta, che li conduce in Galles, nella remota comunità di Dulais. Superata l'iniziale ritrosia, tra attivisti gay e minatori nascerà una sincera amicizia e un'incrollabile solidarietà umana.
Uno spunto narrativo dal potenziale micidiale che ha sorprendentemente atteso trent'anni prima di essere trasposto su grande schermo. Matthew Warchus raccoglie la sfida, forzando la verità storica (la solidarietà era molto più articolata e diversificata) quel tanto che basta per rendere Pride un possibile campione d'incassi. Di quelli destinati in egual misura a essere amati e detestati, per la capacità di concentrare cliché e situazioni già viste in anni di cinema popolare britannico.
Chi ha adorato i balletti di Full Monty, il sogno di Billy Elliot e le tragicomiche vicende di Trainspotting si ritroverà tra mura amiche. Warchus rinuncia da subito allo stupore, sceglie l'alveo confortevole del genere codificato e lo sfrutta al massimo, puntando su un cast adeguatamente variegato e giocando la propria vis comica, così come i climax drammatici, sull'accettazione della "diversità", sia essa abitudine sessuale, estrazione proletaria o semplice provenienza gallese.
Una sceneggiatura accorta, che inserisce quasi subito il pilota automatico e pigia i tasti emozionalmente giusti, senza concedersi sorprese: i traumi, i punti di svolta del plot, sono quelli ampiamente previsti. La diffidenza iniziale degli operai si tramuta in accoglienza gioiosa, specie quando i gay rivelano la loro naturale attitudine al ballo e i percorsi individuali dei protagonisti seguono il loro iter naturale, con l'immancabile figlio che trova il coraggio di fare coming out con i propri genitori e pagarne le conseguenze.
Astutamente tenuta in secondo piano la disfatta dei minatori, in favore di una marcia comune in occasione del gay pride che sa di utopia rivoluzionaria consolatoria almeno quanto l'epilogo recente de I miserabili.