Regia: J.J. Abrams. Fotografia: Daniel Mindel. Sceneggiatura: J.J. Abrams, Lawrence Kasdan, Michael Arndt, George Lucas. Musica: John Williams. Montaggio: Maryann Brandon, Mary Jo Markey. Scenografia: Lee Sandales. Costumi: Michael Kaplan.
Interpreti: Daisy Ridley, Harrison Ford, John Boyega, Adam Driver, Carrie Fisher, Mark Hamill, Andy Serkis, Oscar Isaac.
Produttori: Lawrence Kasdan, J.J. Abrams.
Distribuzione: Walt Disney. Origine: USA, 2015.
«Era tutto vero». È questa la frase chiave del nuovo episodio della saga di "Guerre Stellari". La dice Han Solo, rientrato a bordo della sua vecchia astronave, guardando negli occhi quelli che saranno i suoi successori, ma anche noi che c'eravamo quando tutto cominciò e le nuove generazioni, che avevano ascoltato leggende e promesse, fin qui annegate nella noia dei prequel. «Era tutto vero»: il mito, la forza, la resistenza. Erano veri i personaggi, era vero il messaggio. Per un attimo ti viene da credere ti stia dicendo che esistono davvero dio, i profeti, la lotta del bene contro il male e il destino che assegna al primo la prevalenza. Poi ti scuoti: è soltanto un film. Dopo un'infinita attesa, scandita da ricostruzioni teosofiche e derive pubblicitarie in cui una creazione pop veniva spiegata come la religione che non è o declinata per vendere prodotti che non la rappresentano, finalmente buio in sala e, per una volta, evviva il lato oscuro. J.J. Abrams, il regista del "Risveglio della forza", e i suoi sceneggiatori avevano un problema: come riprendere una narrazione interrottasi 32 anni fa con "Il ritorno dello Jedi"? Missione quasi impossibile. Compiuta affidando ai vecchi miti il compito di garanti, benedicenti apparizioni che ci confortano e ci fanno sentire a casa. L'unico ad avere un vero peso nella storia è Solo, che entra in scena dopo la prima mezzora e, finché la calca, la ruba a tutti. Gli altri, da C1P8 all'ex principessa, ora generale, Leila hanno poche battute, uno sguardo appena. Ma quello di Luke Skywalker, l'ultimo Jedi, è molto di più, è un gancio, un traino, un'investitura conferita con il peso della consapevolezza: non ci sarà dovere che non comporti pena, né libertà senza conflitto. A casa, dunque, con le vecchie pareti e i nuovi inquilini. C'è un senso di rassicurante "déjà-vu" quando compaiono. Alcuni assomigliano al passato, come il robottino sferico, altri fanno entrare nella saga gli elementi di maggior successo nel presente del fantasy: Rey, la ragazza neo-protagonista (professione: rottamatrice) ricorda la spavalda arciere di "Hunger Games". Ci sono atmosfere collaudate (il bar che è anche un freak show) e altre importate (il pianeta-arma da "Matrix", gli scenari naturali dal "Signore degli Anelli"), ma tutto si tiene. Nella storia non si entra, ci si precipita. È subito battaglia, necessità di schierarsi, richiamo all'azione come purezza: purific-azione. Ogni scena s'infila nell'altra senza dare tempo, semmai ritmo. Gli inciampi sono piuttosto nelle parole, in un paio di battute da cartellino rosso per invocare l'autoespulsione dal cinema: il cattivo che al riparo della maschera riesce a dire seriamente «Sono dilaniato» e l'anziana condottiera che abbraccia Harrison Ford dicendogli, a nome delle residenti nella clinica Tramonti Gioiosi: «Mi fai sempre impazzire». Slalomati questi paletti, si va. È tutta discesa. Che cosa si vede? Un accordo capestro della Disney con gli ammessi all'anteprima impedisce di rivelare qualsiasi cosa. E allora diciamo che cosa si intravede. Il settimo episodio (ma quarto in progressione) cucina la stessa ricetta con ingredienti apparentemente diversi. È un'illusione dei sensi, come quando mangi seitan a occhi chiusi e pensi sia un tipo di carne. Non sono i personaggi la cosa principale nella ricetta di "Guerre Stellari", ma il contesto, la forma, i valori. Quelli restano immutati e proprio per questo glorificati nell'osanna della ripetizione. È una galassia lontana eppur dietro l'angolo in cui, come in ogni altrove, il male si riorganizza in sempre nuove forme, un blob che si ricompatta e poco conta sotto le insegne dell'Impero o del Primo Ordine, mentre il bene resta fedele a se stesso, alla semplicità e grandezza di esistere in un solo possibile modo. Chi pensa a "Guerre Stellari" come a una narrazione rassicurante commette un grave errore, poiché il presupposto della saga è l'anti-manicheismo, con abbondanti concessioni al relativismo: dentro ogni eroe c'è il seme schiacciato del cattivo, ma non è detto non possa risorgere. Ogni tradimento è una rinascita, ma è vero anche il contrario. È, questo sì, il messaggio biblico, lo stesso che il servitore orientale decifra per il padrone alla fine della "Valle dell'Eden" di Steinbeck: «Tu potrai avere signoria sul peccato». Non «tu avrai» come in errate traduzioni. È tua facoltà, è libero arbitrio, è quel che sceglierai di fare delle due possibilità che ti sono date: pillola rossa/pillola blu, amare/odiare, resistere/sottomettersi. Tutto "Guerre Stellari", anche questo settimo episodio, è la storia di una scelta, di una catena di scelte: quella del ragazzo che abbandona il Primo Ordine dopo essersi macchiato di sangue, quella della ragazza che lascia la speranza e prende la spada, quella di Han Solo che va incontro al suo destino sul ponte sospeso. Disarmato? All'apparenza. In realtà armato dei valori in cui si riconosce non per dna, ma per vocazione estrema: lealtà, sacrificio, coraggio. In quest'epoca in cui tanto, troppo si concede alla paura, siamo tutti con lui su quel ponte. Quel che ha dentro può non bastare, ma è solo così che si va avanti.
Gabriele Romagnoli - La Repubblica, 17 dicembre 2015di
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