Regia: James Ponsoldt. Sceneggiatura: Donald Margulies, David Lipsy. Fotografia: Jacob Ihre. Montaggio: Darrin Navarro. Musiche: Danny Elfman. Scenografia: Gerald Sullivan, Yvette Granata. Interpreti: Jesse Eisenberg, Anna Chiumsky, Jason Segel, Joan Cusak, Mamie Gummer, Ron Livingston, Becky Ann Baker, Mickey Summer, Stephanie Cotton. Produttori: David Kanter, James Dahl. Distribuzione: Adler. Origine: U.S.A., 2015.
Per cinque giorni, nel 1996, David Lipsky, romanziere e giornalista, ha seguito David Foster Wallace nel tour promozionale di "Infinite Jest", con l'obiettivo di intervistarlo per la rivista Rolling Stone. I due hanno condiviso la solitudine innevata della casa di Wallace, la saliva dei suoi cani, i viaggi in auto e in aereo, l'ansia prima dei reading, l'incontro con due amiche, le sedute davanti al piccolo schermo, vera grande dipendenza di David Wallace. Si sono studiati a vicenda, si sono fatti delle confessioni e ne hanno taciute molte altre, si sono invidiati e detestati, persi e incontrati, e da allora non si sono mai più rivisti.
The end of the tour è un oggetto particolare; ha un suo calore profondo ma bisogna affondare nella neve per trovarlo, bisogna, cioè, passare da un filtro piuttosto freddo all'apparenza e da un impatto che sulle prime può irrigidire. Se c'era una scrittore terrorizzato all'idea di divenire una parodia di se stesso, di perdere il contatto con la realtà, era proprio David Foster Wallace, e l'apparizione di Jason Segel, con la famosa bandana e l'aura di tormento di cui si ammanta, è effettivamente al limite della parodia, ma è anche una grande interpretazione, e il film è un'opera di finzione, non un documentario impossibile. Tradurre è un po' tradire e qui si è tradotto una prima volta dall'esperienza al memoir e poi dal libro al film, ma è grazie a questa distanza che il film può riuscire, facendosi altro dal vero, e cioè racconto, proprio come quelli che Wallace correggeva ai suoi studenti. Mentre Lipsky scrive mentalmente di Wallace, Wallace fa altrettanto con Lipsky, i ritratti dell'intervistatore e dell'intervistato si confondo, nutrendosi a vicenda e nutrendo il film.
La qualità più evidente di questo lavoro di Ponsoldt, veterano del Sundance, è quella di costruire il viaggio di Lipsky sulle orme di Wallace come tutt'altro che un'avventura indimenticabile, e invece come un viaggio nell'umiltà. Il reporter cerca lo smalto e il suo interlocutore glielo nega, ma gli fa infine un dono più grande. Lipsky non potrà "capire" DFW in quei cinque giorni, né può farlo il film di Ponsoldt, ma entrambi hanno l'occasione di avvicinarsi e lasciarsi rimescolare. Detto questo, lo scrittore alla fine balla da solo, e non potrebbe essere altrimenti.
Sottilmente, sotto una superficie lineare e senza dossi, il film impasta anche parecchia materia creativa, non solo citando l'infinito volume del tour in alcune parti, ma facendo, per esempio, un uso del linguaggio tutt'altro che comune per un'opera cinematografica che aspira ad una platea universale, comprensiva di chi (ancora) non conosce il personaggio in questione.
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