Regia e sceneggiatura: Tomasz Wasilewski. Montaggio: Berta Walentowska. Fotografia: Oleg Mutu. Scenografia: Katarzyna Sobanska. Interpreti: Julia Kjowska, Magdalena Cielecka, Dorota Kolak, Marta Nieradkiewwicz, Andrzej Chyra, Lukasz Simiat, Tornek Tyndyk. Produttori: Agnieszka Drewho, Piotr Kobus. Distribuzione: Cinema. Origine: Polonia/Svezia, 2016.
Polonia, 1990. Inizia l’era di Solidarność, il Muro di Berlino è stato abbattuto e un vento di inattesa speranza e libertà sferza l’Europa, soprattutto quella dell’Est. Sembra che sia arrivato finalmente il tempo per molte persone, specialmente donne, di scrollarsi di dosso le rigide norme del collettivo per riscoprire il diritto alla felicità individuale senza sentirsi in colpa. Prende avvio una fase cruciale di transizione che unisce l’euforia della liberazione dalla “Cortina di Ferro” e l’indefinitezza di un futuro tutto da costruire. È in questa particolare atmosfera sociale e politica che la vita di quattro donne, apparentemente serene e realizzate, si incrocia attorno ai loro desideri inappagati. Agata è una giovane madre e moglie che, intrappolata in un matrimonio che non la soddisfa, cerca rifugio in un’altra impossibile relazione: quella con un giovane prete della parrocchia cittadina; Renata è un’insegnante di russo in odore di pensione, affascinata dalla vicina di casa Marzena, un’ex reginetta di bellezza il cui marito lavora in Germania; Iza, sorella di Marzena e preside di un istituto scolastico, intrattiene da sei anni una relazione sentimentale con un medico, padre di una delle sue studentesse.
Il cinema di Wasilewski mette al centro la figura della donna e la sua dimensione corporea e psicologica. Considerato uno scopritore di nuove sensibilità artistiche e di nuovi volti al femminile, alla stregua di un Almodóvar e di un Allen, il giovane cineasta propone una prospettiva corale come pretesto per approfondire individualmente il percorso emotivo di quattro donne diverse per età e temperamento. La narrazione è affidata ad un montaggio sincopato che conferisce al film l’aspetto “dilatato” di un racconto suddiviso in quattro episodi e che, piuttosto che attraverso una struttura sinfonica ad ampio respiro, procede rapsodicamente per giustapposizioni ed incastri successivi. Dopo la scena d’insieme iniziale – un banchetto in cui si commemora la dipartita di una quinta donna – ciascuna delle protagoniste viene presentata di spalle, pedinata da una camera a mano che ne segue il passo e ne interpreta simbolicamente il cammino accidentato e la potenziale trasformazione. A questi movimenti “sobbalzanti” e documentaristici della macchina da presa fanno da contraltare lunghi ed immobili piani sequenza, spesso in profondità di campo, che riprendono silenziosi isolati popolari, stradine di quartiere di notte o al tramonto illuminate dai lampioni e paesaggi brulli ed immoti che si distendono a perdita d’occhio, come a creare un contrasto insanabile tra movimento della volontà e tensione evolutiva della psiche, da una parte, e un contesto sociale – e finanche ideale – auto-riflettente, sempre uguale e privo di prospettive, dall’altra. La dimensione narrativa, fredda ed ingessata, alimenta un sentimento di prigionia e di stagnazione che annienta lo slancio ideale e romantico delle protagoniste, fino a disegnarsi sulle loro espressioni (quasi) perennemente tese e malinconiche e ad afferrare allo stomaco lo spettatore con un effetto di straniamento anche fisico.
Le pulsioni sessuali e sentimentali sembrano costituire il punto di osservazione privilegiato – o meglio, si direbbe anche l’unico – attraverso il quale il regista scandaglia la tensione ideale e la spinta liberatoria ingenerata dallo sgretolamento del regime comunista e dall’apertura del fronte occidentale dell’Europa. Se si eccettuano sporadici riferimenti la dimensione socio-politica è relegata su uno sfondo muto: è la metafora epidermica a prenderne in toto il posto e a sostanziare lo spazio della narrazione, mentre, specie nella prima parte del film, emerge un altro tratto distintivo della storia polacca, quello della relazione comunità-sacralità e della presenza della parola di Dio e dei suoi ministri umani. Sermoni, celebrazioni di messe, approccio catechistico scandiscono i tempi di una liturgia pervasiva e persuasiva In una paese non ancora pronto ad introiettare la libertà e abituato a vivere al ritmo delle certezze, per quanto repressive ed oppressive, dell’ideologia di regime, soffocamento e congelamento appaiono le sole traiettorie percorribili di fronte all’oceano sconfinato delle possibilità e di una way of life da scegliere e da forgiare in fieri. E il prefisso della privazione sembra accompagnare e declinare ogni potenziale sviluppo in un meccanismo scenico nel quale si entra in punta di piedi e senza essere e dal quale ci si congeda senza colpa e senza rumore.
Ad interessare il regista è il discorso sulla coscienza femminile, mutuato in parte dallo sguardo di un maestro del cinema polacco come Kieślowski. In questo universo femminile sembra dominare, tuttavia, il maschile, con uomini che usano, abusano e sfruttano il corpo delle donne, il più delle volte con la complicità di queste ultime, e questa dis-umanizzazione delle emozioni, nonché lo scacco dell’empatia, producono un disturbante effetto boomerang, finendo con il veicolare un messaggio sessista che rovescia l’intenzione originaria. La visione autodistruttiva e pessimistica del regista ammanta la pellicola di un respiro algido che cristallizza la stessa disponibilità dello spettatore a seguire con empatia il destino delle protagoniste, distanti statue di gesso, per quanto pervase dalla scossa fibrillante del desiderio erotico, laddove anche l’amplesso più selvaggio appare spolpato di autentico trasporto passionale e ridotto a rituale meccanico di sopraffazione e di possesso. La fotografia del direttore rumeno Oleg Mutu - con i suoi colori de-saturati e virati su tonalità argentee e che, significativamente, diventa più vibrante ed accesa nella raffigurazione degli oggetti legati ai bisogni fisiologici e ad un utilizzo consumistico, come le vivande e le bevande, i capi di abbigliamento e il trucco – permea di una raffinata patina cerea le immagini e si rivela funzionale alla gelida poetica della solitudine del regista, quasi conferendo alla pellicola il singolare aspetto di un album di illustrazioni d’epoca in cui tutto è già ricordo impresso su carta e il futuro è solo un riflusso del passato.
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