Regia: Alessio Cremonini. Sceneggiatura: Alessio Cremonini, Lisa Nur Sultan. Montaggio: Chiara Vullo, Nazareno Neri, Vladimir Vasiljevic. Fotografia: Matteo Cocco. Musiche: Mokadelic. Scenografia: Roberto De Angelis. Interpreti: Jasmine Trinca, Alessandro Borghi, Paolo D Bovani, Italo Amerighi, Emanuele Cerman, Andrea Lattanzi, Mauro Conte, Andrea Ottavi. Produttori: Andrea Occhipinti, Mattia Guerra. Distribuzione: Lucky Red. Origine: Italia, 2018.
L'ultima settimana nella vita di Stefano Cucchi è un'odissea fra caserme dei carabinieri e ospedali, un incubo in cui un giovane uomo di 31 anni entra sulle sue gambe ed esce come uno straccio sporco abbandonato su un tavolo di marmo. Alessio Cremonini ha scelto di raccontare una delle vicende più discusse dell'Italia contemporanea come una discesa agli inferi cui lo stesso Cucchi ha partecipato con quieta rassegnazione, sapendo bene che alzare la voce e raccontare la verità, all'interno di istituzioni talvolta più concentrate sulla propria autodifesa che sulla tutela dei diritti dei cittadini, sarebbe stato inutile e forse anche pericoloso. Cremonini sposa il racconto della famiglia Cucchi e la loro denuncia di un pestaggio delle forze dell'ordine come causa principale della morte del detenuto affidato alla loro custodia, e anche se non ci mostra direttamente la violenza ce ne illustra ampiamente le conseguenze. La sua narrazione è imbavagliata e compressa, un po' perché l'iter legale è tuttora in corso, un po' perché questo è un modo efficace per rappresentare il tunnel in cui Cucchi è entrato, le pareti sempre più strette intorno al suo corpo martoriato, fino alla scena in cui la testa di Stefano è letteralmente incastrata fra due supporti che sembrano una morsa, uno strumento di tortura medievale. Intorno a lui si muove un universo magmatico e incolore fatto di rifiuti e ostruzionismi, di autorizzazioni non concesse e responsabilità non assunte, di ottusa burocrazia e di ipocrisia travestita da rispetto delle regole.
Cremonini sceglie di non fare di Cucchi un santino, anzi, ne illustra bene le debolezze e le discutibili abitudini di vita. Stefano acconsente alla propria odissea perché si vive come una "cosa da posare in un angolo e dimenticare": e perciò minimizza, non si fa aiutare, non cerca di rendersi simpatico, alle autorità come al pubblico. Ma è proprio sull'anello debole della catena che si misura la solidità di un sistema democratico, e giustizia, carcerazione e sanità dovrebbero comportarsi correttamente a prescindere dalla stima che nutrono per i soggetti affidati alla loro tutela.
Sulla mia pelle resta un dignitoso tentativo di restituire corpo e voce ad un essere umano fragile e fallibile finito in un groviglio di dinieghi e brutalità: ed è proprio sulla voce e sul corpo che Alessandro Borghi compie il suo lavoro più prezioso, ritrovando quel tono sfuggente e lamentoso che apparentava a Stefano Cucchi e ai tanti giovani "sbagliati" di una Roma distratta e indifferente, e quel corpo che negava a se stesso il nutrimento perché si percepiva come irrimediabilmente immeritevole.
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