Regia: Sergio Rubini Sceneggiatura: Sergio Rubini, Carla Cavalluzzi. Fotografia: Michele D’Attanasio. Scenografia: Luca Gobbi. Musica: Ludovico Einaudi. Costumi: Patrizia Chericoni.
Interpreti: Sergio Rubini, Rocco Papaleo, Bianca Guaccero.
Produttore: Jacopo Cino. Distribuzione: 01 Distribution.
Origine: Italia. 2019.
Tonino è un ladruncolo sempre in cerca del grande colpo di fortuna: che sembra finalmente arrivare quando il bottino di una rapina, per cui lui era stato relegato al ruolo di palo, finisce fortuitamente nelle sue mani. Tonino fugge con la refurtiva sui tetti di Taranto e trova rifugio in un abbaino fatiscente abitato da uno strano personaggio: Renato, che si è dato il soprannome di Cervo Nero perché si ritiene un indiano, parte di una tribù in perenne lotta contro gli yankee. Renato, come sillaba sprezzantemente Tonino, è un "mi-no-ra-to", ma è anche l'unica àncora di salvezza per il fuggitivo, che tra l'altro si è ferito malamente cadendo dall'alto di un cantiere sopraelevato. Fra i due nascerà un'intesa frutto non solo dell'emarginazione, ma anche di un'insospettabile consonanza di vedute.
Che Rubini abbia le idee chiare si capisce da due scelte iniziali. La prima è quella di far precedere la narrazione dalle immagini della fabbrica dell'Ilva, con le sue fornaci e le sue ciminiere fumanti, mescolandole alle immagini del fuoco "purificatore" acceso da Cervo Nero: inferno e praterie celesti, distruzione e devozione, peccato e redenzione. La seconda scelta fortemente simbolica è quella di ambientare quasi tutta la storia sui tetti di Taranto, in una ricerca visiva di elevazione fisica e spirituale: tutta la parabola (è il caso di dirlo) di Tonino e Renato si consuma nella verticalità, in ascese celestiali e rovinosi schianti a terra - quella terra avvelenata dalle fabbriche e infestata dalla malavita. Anche le ciminiere dell'Ilva incombono grazie alla loro altezza, che si erge arrogante sopra il livello del mare tarantino.
Tonino e Renato sono l'uno l'"uomo del destino" dell'altro perché attraverso il loro rispecchiarsi si accende la loro luce interiore, quella luce che lotta contro il buio circostante: la fotografia di Michele D'Attanasio è intenzionalmente livida e fosca, la scenografia di Luca Gobbi è lurida e monocromatica.
Le musiche di Ludovico Einaudi sottolineano ogni passaggio e la regia di Rubini passa dalle lunghe scene di dialoghi dal forte impianto teatrale, a sequenze movimentate di fuga, caccia all'uomo e colluttazioni violente, senza risparmiarci l'orrore e il disgusto.
Su tutto però dominano l'afflato poetico stralunato e il realismo magico che sono cifre distintive del suo cinema sempre in bilico fra materia e spirito, fra concretezza anche gretta e allucinazione sempre nobile. Il grande spirito è dunque una storia di miseria e nobiltà, con una grande attenzione all'elemento polisensoriale: il suono, in particolare, è molto curato, dal lamento gutturale di un malato costretto al ricovero forzato al ticchettio di una mano nervosa.
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