Regia e sceneggiatura: Pedro Almodòvar. Fotografia: Josè Luis Alcaine. Montaggio: Teresa Font. Musica: Alberto Iglesia.
Interpreti: Antonio Banderas, Penelope Cruz, Asier Etxeandia, Leonardo Sbaraglia, Nora Navas, Raùl Arévalo, Cecilia Roth, Juliàn Lòpez.
Distribuzione: Warner Bros. Origine: Spagna 2019.
Almodóvar nel suo 21° lungometraggio, intitolato Dolor y gloria offre aspetti della sua esistenza di cui non aveva mai parlato, con la realtà che penetra la finzione, reincarnato nel personaggio di un regista in crisi interpretato da Antonio Banderas. Così, i primi minuti del film, con Banderas in modalità Tu cara me suena – con indosso gli stessi abiti di colori vivaci, la stessa capigliatura spettinata, e imitando i gesti dell'autore di Volver sconcertano lo spettatore, che si chiede perché Almodóvar si ritragga in questo modo: per rancore, per saldare debiti con il passato, come terapia o testamento, per mancanza di idee, come atto di riconciliazione...? Tra queste ci potrebbero essere le motivazioni di fondo per spogliarsi emotivamente in modo così intenso, con la tristezza ostinata di sentirsi diversi, incompresi e fuori posto che attraversano Dolor y gloria.
Perché, sicuramente, c'è molto più dolore che gloria nel nuovo film del manchego, un cineasta che qui – come nel suo precedente lavoro, Julieta - dimentica l’umorismo brillante e la passione scatenata dei titoli più festosi e torrenziali della sua filmografia e opta per una narrazione serena, calma e contenuta che salta nel tempo e dalla meta finzione all'auto finzione per introdurre lo spettatore fin nella sua casa a Madrid o nell’intimità della sua famiglia, spogliata qui dell’arguzia e del costumbrismo che tanto ci ha divertito, ad esempio, in Il fiore del mio segreto.
Così, questo ritratto si insinua gradualmente nell’animo dello spettatore e questo finisce per soccombere al suo strano e oscuro incantesimo, con qualche momento luminoso che rimanda al cinema più sexy della sua carriera: a corroborarlo, qui ci sono le scene di Leonardo Sbaraglia. Almodóvar include un dialogo in Dolor y gloria in cui il protagonista (Antonio come uno specchio di Pedro) si chiede come i suoi film possano avere successo in luoghi così lontani dalla Spagna e le sue peculiari idiosincrasie come, ad esempio, l'Islanda. È un mistero che gli studenti della settima arte dovranno chiarire, ma al momento Dolor y gloria entusiasmerà i fan di Pedro e provocherà disinteresse per il resto del pubblico (soprattutto spagnolo).
Da segnalare, infine, che al di là della tristezza che scorre nel film e l'eccesso di verbosità di alcuni personaggi che spiegano troppo (come fa lo stesso regista quando presenta ogni film), Dolor y gloria si erge, soprattutto, come un’ode d’amore per il cinema: il grande schermo bianco salvò quel bambino sensibile da un ambiente ostile e, decenni dopo, aiuterà l'artista maturo a superare le avversità di salute, gli errori e il tempo. Con questo film, Pedro Almodóvar firma il suo personale Otto e mezzo felliniano, anche se il suo sguardo era rivolto ad Arrebato, di Iván Zulueta, dove il cinema non era solo una dipendenza, ma la vita stessa.
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