Regia: Pupi Avati. Sceneggiatura: Antonio e Pupi Avati. Fotografia: Cesare Bastelli. Montaggio: Ivan Zuccon. Costumi: Maria Fassari.
Interpreti: Gabriele Lo Giudice, Filippo Franchini, Cesare S. Cremonini, Massimo Bonetti, Lino Capolicchio, Chiara Caselli, Gianni Cavina, Alessandro Haber, Andrea Roncato.
Produttori: Antonio e Pupi Avati. Distribuzione: 01 Distribution. Origine: Italia, 2019.
Roma, 1952. Il giovane funzionario ministeriale Furio Momenté viene convocato dal suo superiore per una questione delicatissima. In Veneto, un minore ha ucciso un coetaneo convinto di uccidere il diavolo. Per motivi elettorali la questione va trattata in modo da evitare scandali. La madre della vittima è molto potente e, da sostenitrice della causa della maggioranza politica, ha cambiato opinione assumendo una posizione assai critica nei confronti della Chiesa e di chi politicamente la supporta. Il compito di Momenté è quindi quello di evitare un coinvolgimento di esponenti del clero nel procedimento penale in corso. Durante il lungo viaggio in treno, Momenté legge i verbali degli interrogatori condotti dal giudice istruttore, a partire da quello del piccolo assassino, Carlo. La realtà che comincia a dispiegarglisi davanti è complessa e sinistra, ma le cose, una volta che si troverà sul posto, si dimostreranno ben peggiori. Avati ha firmato capolavori horror a tal punto significativi da far nascere più volte il rimpianto che non si sia dedicato più spesso al genere, per quanto belli e importanti siano stati i suoi altri film. Perciò, ogni volta che Avati torna all'horror, l'attesa e le aspettative non possono che essere alte. E quando le aspettative sono alte, le delusioni sono dietro l'angolo. Non è però questo il caso perché con Il signor diavolo Avati azzecca praticamente tutto e crea un altro dei suoi capolavori gotici ricchi di sfumature e di significati evidenti o reconditi.
La capacità tutta avatiana di inventare dettagli di assoluto e originale fascino macabro si evidenzia una volta di più in questo film nel quale i personaggi appaiono spesso molto diversi da quello che sono e l'inerme protagonista, proiettato da lontano in una realtà che non conosce, deve con grande fatica cercare di trovare il bandolo di una matassa che gli si aggroviglia sempre più tra le mani, un po' come il Lino Capolicchio de La casa dalle finestre che ridono, indimenticato horror di Avati di oltre quarant'anni fa.
L'ambientazione rurale in quegli anni '50 che sembrano appartenere a un non tempo in cui il tempo si è fermato richiama proprio, pur con differenze geografiche e temporali, quel capostipite del gotico padano e riafferma con forza e potenza come l'innocenza del vivere contadino sia un luogo comune per niente vero. Anzi. L'atmosfera che Avati crea è di profonda inquietudine, sempre in bilico tra soprannaturale e superstizione: "Nella cultura contadina" dice uno dei personaggi "il diverso, il deforme vengono associati al demonio".
Ricco di riferimenti anche interni all'opera di Avati (il "segno" che Carlo si aspetta dal defunto amico Paolino non può che far venire in mente un altro grande film di Avati, Magnificat), è un film denso, ricco di spunti e con un fascino macabro di genuina potenza, che recupera la dimensione magico-lugubre della profonda campagna, dove la natura sembra ancora manifestarsi nelle sue forme primordiali.
La messa in scena di Avati è perfetta, con il suo inconfondibile stile visuale a dare eleganza e raffinatezza alle immagini. Il mistero è fitto e più si procede nel film più si creano risolti sinistri. Il titolo - che pure, come si apprende dalla visione, ha una spiegazione molto azzeccata - potrebbe far pensare a qualcosa di diverso, più leggero, ma questo è un horror di grande cupezza che non si risparmia per andare in fondo alla sua tematica gettando uno sguardo filosofico e pessimista sulla natura umana e sul suo rapporto con il trascendente.
Senza bisogno di ricorrere a particolari effetti raccapriccianti e mantenendo ferma la propria cifra autoriale inconfondibile che lo rende unico nel panorama anche horror, Avati racconta una storia che avvince, interessa, sorprende e alla fine lascia un salutare senso di disagio.
Altro aspetto interessante e tipicamente avariano è il cast, popolato, soprattutto nei ruoli di supporto, da "suoi" attori o da attori noti ma utilizzati in ruoli assai diversi da quelli che di solito interpretano. Tutti si comportano in modo esemplare - possiamo citare Andrea Roncato, Alessandro Haber, Chiara Caselli, Massimo Bonetti - ma i bravissimi Lino Capolicchio e Gianni Cavina mostrano ancora una volta una sintonia particolare con il regista. Gabriel Lo Giudice è molto bravo a rendere l'incertezza e la determinazione del protagonista.
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