Regia: David Fincher. Sceneggiatura: Jack Fincher. Fotografia: Erik Messerschmidt. Montaggio: Kirk Baxter. Scenografie: Donald Graham Burt. Costumi: Trish Summerville. Musiche: Trent Reznor
Interpreti: Gary Oldman, Lily Collins, Amanda Seyfried, Charles Dance, Tom Burke, Arliss Howard.
Produttore: Ceàn Chaffin.
Distribuzione: Lucky Red. Origine: USA, 2020.
Durata: 131’.
Vincitore Premio Oscar 2021 per la Miglior Fotografia e per la Miglior Scenografia
Victorville, California, 1940. Lo sceneggiatore alcolizzato Herman J. Mankiewicz, temporaneamente infermo a causa di un incidente, si isola nel mezzo del deserto del Mojave con due assistenti per dar vita a uno script commissionato da Orson Welles, ventiquattrenne talento del teatro a cui la RKO ha dato carta bianca. Mankiewicz, detto Mank, cerca ispirazione tra i ricordi e rievoca eventi degli anni precedenti, che lo hanno visto spesso ospite del magnate William Randolph Hearst e al servizio del capo della MGM Louis Mayer. Tra questi le elezioni del 1934 per il governatore dello Stato, in cui simpatizzava per il candidato democratico dalle tendenze socialiste Upton Sinclair, apertamente osteggiato da Hearst e Mayer. Tanto da non poter nemmeno essere definito biopic, nonostante rechi nel titolo ad personam il soprannome con cui si faceva chiamare Herman J. Mankiewicz, co-sceneggiatore di Quarto potere. Fincher non racconta una parabola individuale, con il suo arco di ascese e cadute. Racconta la genesi del film più importante di sempre, la cui paternità è contesa: nel 1971 infatti il saggio di Pauline Kael Raising Kane offuscò il genio di Welles attribuendo il merito della sceneggiatura interamente a Mankiewicz.
Forse è per questo che nei titoli di testa di Mank David Fincher attribuisce i meriti dello script totalmente al padre Jack, che non riuscì mai a far realizzare il film dagli studios hollywoodiani. Grazie a Netflix, invece, Mank vede la luce. E con lui lo spaccato di un'epoca unica, quella d'oro del cinema hollywoodiano, apparentemente così lontana nel tempo e nelle abitudini dal 2020 in cui il film viene portato a termine e invece così affine.
Per farlo Fincher veste letteralmente la pelle di quella Hollywood, in un bianco e nero sfavillante, con scenografie che paiono estratte di peso da quelle sontuose produzioni cinematografiche. Quasi che il regista di Seven volesse trasportarci nella Xanadu autentica, in quel mondo dorato e crudele di cui Quarto potere rappresenta una critica e insieme una confessione di complicità e correità. Ma anche questo è un trucco.
Troppi sono i parallelismi con il presente per pensare che Fincher non abbia in parte ripensato Mank, trasformandolo in uno specchio deformato dei nostri tempi. La dissezione di Hollywood è effettuata attraverso il medium che più è accusato di decretarne la fine, ossia Netflix, la regina delle piattaforme VOD. La crisi economica che colpisce duramente l'industria dello spettacolo nel 1930 rivive 90 anni dopo nelle parole e nella preoccupazione di molti, sempre meno convinti che come allora l'industria possa risorgere dalle proprie ceneri come una fenice.
E infine la questione politica, con un candidato vicino a idee socialiste come Uptown Sinclair, abbandonato a se stesso dall'establishment di Franklin Delano Roosevelt e sconfitto a colpi di fake news, che ricorda troppo il Bernie Sanders del terzo millennio perché si tratti di un caso.
Ma Roosevelt non è il solo santino a cadere e frantumarsi in mille pezzi nella ricostruzione di Fincher: l'altro è Orson Welles, ritratto come un'arrogante e megalomane giovane promessa di Hollywood, che non si fa scrupoli a considerare come sua la sceneggiatura scritta da Mank. Un panorama desolante di uomini mossi da fama, potere e denaro in cui si salva solo Marion Davies, l'attrice amata da Hearst e rimastagli fedele fino alla fine. Un'ideale Dulcinea per un donchisciottesco sceneggiatore alcolizzato, alla disperata ricerca di una musa che possa restituirgli la purezza incontaminata del cinema e le sensazioni della più autentica polvere di stelle.
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