Regia: Lana Wachowski. Sceneggiatura: Lana Wachowski, David Mitchell. Fotografia: Daniele Massaccesi. Montaggio: Joseph Jet Sally. Musica: Peter Warpole. Costumi: Lindsay Pugh.
Interpreti: Keanu Reeves, Carrie-Anne Moss, Yahya Abdul-Mateen, Neil Patrick Harris, Priyanka Chopra.
Produttori: Lana Wachowski, Grant Hill. Distribuzione: Warner Bros Italia. Origine: USA, 2021.
Ѐ difficile immaginare in quale forma si sarebbe concretizzato questo film con entrambe le sorelle Wachoswki al timone, ma sin dai primi minuti “Matrix Resurrections” esprime chiaramente un’aspirazione che va oltre il mero auto-citazionismo metareferenziale: mai come in questo universo fittizio la decisione di decostruire l’eredità consolidata nel corso delle iterazioni precedenti appare sensata e perfettamente in linea con lo spirito del capostipite.
La trilogia originale era una cosa, il quarto capitolo è ben altro – questo sembrano voler sottolineare i numerosi callback alle sequenze iconiche di "Reloaded" e "Resurrections".
Solo apparentemente nostalgica, provocatoriamente (e fintamente) passatista, la pellicola di Lana Wachowski è ben consapevole di aver trovato terreno fertile in un’epoca dove i grandi franchise sopravvivono traendo linfa vitale dalle spoglie dei propri antenati defunti – un po’ come accadeva agli infanti “coltivati” nei Campi delle Macchine –, un’epoca che spesso punisce le intuizioni creative (scommesse rischiose e spesso fallaci ma, ancorché imperfette, dotate di un’anima indipendente), un’epoca fatta di brand “resuscitati”, rimasticati, riproposti… e tuttavia, rifiuta in modo categorico di adeguarsi al corso dei tempi.
Il “nuovo” Matrix è, a conti fatti, un modello esplorativo sull’evoluzione dei rapporti umani – o piuttosto, sulla loro involuzione –, un teorema (un’equazione?) che tenta continuamente di definirsi (di bilanciare sé stessa?) rinunciando, per paradosso, ad assumere un’identità riconoscibile.
Tematicamente, e non senza accezioni positive, lo riassumeremmo in un ossimoro: un passo indietro, ma nella direzione giusta.
Laddove, infatti, la trilogia classica denunciava i pericoli futuri di una tecnologia troppo invasiva, uno spauracchio pericolosamente credibile ma offuscato dal muro divisorio del tempo, Resurrections si rivolge agli spettatori del presente, a chi vive nel Qui e nell’Ora, attuando una denuncia nemmeno troppo paternalistica (anzi, addirittura autoironica) delle app e dei social network.
Poco importa se le scene d’azione si rivelano competenti ma lontane dall’essere rivoluzionarie – pur potendo contare sulla dignitosa prestazione atletica, tra gli altri, del cinquasettenne Keanu Reeves – perché il fulcro dell’opera è, ancora una volta, il suo sottotesto filosofico (o meglio, antropologico): come anche l’anziana Niobe si ritrova costretta ad ammettere, quale significato può avere liberare una mente dal suo torpore digitale, se nessuna mente è più disponibile ad essere “salvata”?
Ciò che impedisce al film di tramutarsi in un glossario sovradimensionato, freddo e concettuoso, un artifizio puramente meccanico (alla "Tenet", per intenderci), è l’interpretazione degli attori principali, mai così autentici ed espressivi, quasi più calati in sé stessi che nella parte.
Certo, nemmeno un Matrix in salsa autarchica sfugge del tutto alla trappola della serialità, come ci conferma l’enigmatico finale, e l’inedita caratterizzazione dei vecchi protagonisti finisce per sottrarre minuti preziosi ai nuovi comprimari – alcuni dei quali appena abbozzati –, senza contare la presenza puramente simbolica del redivivo Morpheus… ma alla fine, il verdetto determinante non spetta ai critici specializzati né agli spettatori occasionali, bensì ai fan di vecchia data, quelli tanto propensi a rievocare con nostalgia "i bei tempi andati" quanto inclini a sacrificare l'onestà intellettuale per attribuire voti spropositati: un quinto Matrix sarebbe davvero giustificabile?
Nel dubbio, noi propendiamo per il sì.
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