Regia: Yvan Attal Sceneggiatura: Yaël Langmann, Yvan Attal Fotografia: Rémy Chevrin. Montaggio: Albertine Lastera. Musica: Mathieu Lamboley.
Interpreti: Charlotte Gainsbourg, Mathieu Kassovitz, Laëtitia Eïdo, Camille Razat, Pierre Arditi,Benjamin Lavernhe Audrey Dana, Judith Chemla, Ben Attal, Franz-Rudolf Lang, Romain Barreau, Suzanne Jouannet
Produttore: Olivier Delbosc, Christine De Jekel Distribuzione: Movies Inspired. Origine: Francia, 2021.
Dopo le svariate incursioni di Attal nella commedia francese, tra cui ricordiamo il suo ultimo film di successo, Mon Chien Stupide (2019), il regista abbandona la sua comfort zone per la sua settima fatica autoriale, intraprendendo un’esperienza totalmente opposta: il dramma procedurale vecchio stile (che gli permette di rendere omaggio a Sydney Lumet) con un soggetto tanto delicato quanto furiosamente attuale. I Farel sono una super-coppia: Jean è un importante opinionista francese e sua moglie Claire una saggista, nota per il suo femminismo radicale. Hanno un figlio modello, Alexandre, che frequenta una prestigiosa università americana. Durante una breve visita a Parigi, Alexandre conosce Mila, figlia dell’amante della madre, e la invita a una festa. Il giorno dopo, Mila sporge denuncia contro Alexandre con l’accusa di stupro, distruggendo l’armonia familiare e mettendo in moto un’inestricabile macchina mediatico-giudiziaria che presenterà verità opposte. La trama del film L’accusa naviga sostanzialmente attorno al campo semantico del dubbio e ai danni collaterali che esso implica (anche se ci rendiamo presto conto che nei fatti non ve n’è nessuno), tanto in una storia solidamente strutturata (con intricati giochi verbali, soprattutto nell’ultimo atto), quanto in una coreografia di interpretazioni veramente grandiose (citando tanto il team di avvocati Judith Chemla/Benjamin Lavernhe, quanto la nuova arrivata Suzanne Jouannet). Il nuovo lungometraggio di Yvan Attal trova i suoi punti di forza nella rappresentazione del furore giudiziario e mediatico dell’epoca post MeToo, soffermandosi sul modo in cui la società percepisce e giudica un simile caso di cronaca, nell’ottica imperante di pregiudizi collettivi che conducono a giudizi soggettivi, spesso fuorvianti. Diviso in tre capitoli distinti – il punto di vista di Alexandre, quello di Mila e quello del processo – il film, che non è così lontano dal recente ed eccellente La ragazza con il braccialetto di Stéphane Demoustier, è tanto una sincera apertura al dibattito su questioni sociali cruciali, quanto una messa in discussione frontale della responsabilità dei genitori nell’educazione e delle ripercussioni del loro comportamento sulla loro prole. E se questa storia apparentemente chiara fosse in realtà molto più complessa di quanto appare? E se sollevasse molte domande essenziali su certi stili di vita e comportamenti?
Con il suo processo a tre gironi, Attal solleva – come nel romanzo di Tuil – la questione del consenso, del posizionamento sociale nelle relazioni umane, della comunicazione, dell’appropriazione del corpo altrui, del tribunale di Twitter, della giustizia in senso lato. Questioni quanto mai umane, lungi dal ricercare risposte univoche, sono al centro di un film come L’accusa, che descrive un caso in modo esaustivo, senza esprimere alcun giudizio, proponendosi di scrutare gli aspetti più nefasti e talvolta anche inquietanti di un sistema estremamente fallace, che trascina tutti i suoi protagonisti allo stesso tempo in un meccanismo terribilmente distruttivo e spazzando tutte queste prospettive attraverso l’insieme dei riferimenti. Fotogrammi – quasi assimilabili a spettrogrammi – selezionati per esprimere al meglio le argomentazioni di entrambe le parti rimodellano l’andamento ritmico della pellicola, con un’ellissi di 30 mesi tra le prime due che permette finalmente di affrontare il processo, lasciando da parte il sensazionalismo per tentare di penetrare il fattuale. Si dà quindi ampio respiro all’indecenza dell’esposizione di fantasie e pulsioni, al ruolo del caso, alla facoltà di dissentire all’influenza degli eventi passati, al potenziale di vendetta o di manipolazione, alla capacità di chiedere perdono o di perdonare, tematiche che vengono messe in discussione nel dettaglio. L’accusa è un’immersione realistica e senza filtri nel bozzolo lussuoso ed egocentrico della borghesia parigina e, più direttamente, nella sfera dei media; il film è un’opera tragica e meticolosa sui mali della società contemporanea (la violenza sulle donne spesso impunita, la tossicità dello sguardo monolitico maschile, l’abuso di potere da parte dei privilegiati, l’eredità post #MeToo, la sessualità oggi, l’eccessiva giurisdizione pubblica dei social network…). Uno studio sociale catturato attraverso il prisma di un ritratto familiare gradualmente terrificante, dove una prole viziata e detestabile – come il suo progenitore – ha una nozione profondamente dubbia di consenso, frutto di una convivenza/educazione di un padre il cui comportamento profondamente tossico con le donne non è mai stato veramente messo in discussione da nessuno – meno che mai da lui stesso.
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