Regia e sceneggiatura: Paul Thomas Anderson. Fotografia: Paul Thomas Anderson, Michael Bauman. Montaggio: Andy Jurgensen. Musica: Joony Greenwood. Scenografia: Ryan Watson. Costumi: Mark Bridges.
Interpreti: Alana Haim, Cooper Hoffman, Sean Penn, Tom Waits, Bradley Cooper.
Produttori: Paul Thomas Anderson, Daniel Lupi. Distribuzione: Eagle Pictures. Origine: USA, 2021.
Los Angeles, 1973. Gary Valentine, adolescente intraprendente e fanfarone, incontra Alana Kane, venticinquenne sul cammino dell'indipendenza. Lei gli porge specchio e pettine per la foto dell'annuario scolastico, lui le dichiara il suo amore eterno. Lei rifiuta e lui insiste. In cosa crede Gary? A cosa si oppone Alana? Dieci anni li separano ma tutto sembra unirli. Irresistibilmente attratti l'uno dall'altra, non sanno come amarsi, non sanno nemmeno se si amano o se amano soltanto l'idea di amarsi. Tra choc petrolifero, e crepuscolo della Hollywood classica, il loro ipotetico grande amore parte, avanza, sterza, vaga, sosta, svolta, si riallinea in fondo alla notte e alla San Fernando Valley. "July Tree" apre e dona la chiave di una ballata seventies girata con le mani in tasca e il sorriso sulle labbra. Perché il film di PTA obbedisce a una logica infantile e procede in maniera imprevedibile in un mondo che ha (quasi) bandito gli adulti. Come se la Neverland di Peter Pan si fosse trasferita nella periferia di Hollywood. Quando i 'vecchi' entrano in scena sono bigger than life, sono presenze straordinarie, incontri inattesi ed eccezionali in cui inciampa la febbre erratica di Gary e Alana.
Jon Peters (Bradley Cooper), Jack Holden (Sean Penn), Lucy Doolittle (Christine Ebersole) servono la coppia, per ritrovarla meglio e legarla per sempre. Sono schegge (impazzite) di biografie celebri, istrioni, regine, doppi (di Lucille Ball o di William Holden), esseri incrinati, il precipitato patetico e toccante insieme di una Hollywood decadente e di un'estate del '73, quando l'America perdeva uno sguardo e ne trovava uno nuovo. John Ford moriva per diventare leggenda e Scorsese sorgeva girando Mean Streets.
Licorice Pizza comincia proprio da un bagliore scorsesiano, un riflesso nello specchio, lontano eco di Harvey Keitel che esamina il suo volto (e la sua coscienza) sulla superficie riflettente di quelle strade malfamate. Ma PTA investe sullo sguardo che deraglia dal suo riflesso per inseguire senza posa la figura della sua ossessione. Uno sguardo che si stacca da una fila in attesa e lo spettacolo può cominciare.
Il prologo è come un fulmine, è un colpo di fulmine. La storia è vecchia come il mondo e la sua confezione ha il 'sapore' di un vecchio adagio. A immagine del suo titolo, Licorice Pizza designa il mondo irreale dei ricordi, dove tutto è possibile, tutto può accadere e l'estate non finisce mai. "La pizza alla liquirizia" è uno stato dello spirito, una fede adolescenziale quasi impossibile da catturare. Fino ad oggi. PTA scarabocchia tre parole sulla carta, boy meets girl, e un film emerge, un'idea si trasforma in movimento, un amore vive negli smarrimenti, un universo è ancorato e incarnato. L'autore sa come incendiare il suo racconto, come renderlo vivo con lo sguardo, la musica e il gioco virtuoso di cambio e freno. Informato dal lirismo della sua prima ballata, Licorice Pizza procede alla sua velocità di crociera, a volte languida, a volte impetuosa, una narrazione in modalità flipper tra materassi ad acqua e campagne elettorali, tra crisi energetiche e nevrosi disinvolte.
Mettendo in scena un'epoca che ha conosciuto con gli occhi dell'infanzia, l'autore punta sovente sull'aneddoto, l'epica ridicola degli adulti (il salto in moto di Penn soppiantato dallo sguardo inquieto di Hoffman), per ricentrarsi meglio sul suo proposito: un'erranza frammentata, un tutto e un niente allo stesso tempo, un vizio di forma infantile. Di fatto Pynchon non è mai troppo lontano da una storia che suona "Let me roll it". E Licorice Pizza non smette di 'girare', di finire e di ricominciare, scandito da tiremmolla e slittamenti, incroci e deviazioni, epifanie e sottrazioni, ellissi e linee spezzate. Un valzer narrativo che evolve i sentimenti di due 'debuttanti' alla ricerca di guai su una playlist radiosa (Doors, McCartney, Bowie, Sonny & Cher...).
Lui ha solo quindici anni ma il senso degli affari e l'audacia di uscire dai ranghi (letteralmente), lei ne ha venticinque e l'aria di chi non aspetta più grandi cose ma accetta imperturbabile di imbarcarsi in qualsiasi avventura. Fonte di fascinazione costante, la circolazione del loro sentimento è la sola cosa che conta. La corsa è il motivo del film. C'è qualcosa di orecchiabile in questa esaltazione permanente in cui il movimento dell'uno verso l'altra diventa semplicemente un modo di vivere, un procedere dinamico e random.
La narrazione in Licorice Pizza è evasiva, libera da ogni convenzione, da ogni forma di sottomissione. La più insolita e inattesa delle commedie romantiche si costruisce attraverso l'inaspettato, le relazioni, gli incontri, come la vita, non tutto avviene in modo logico. L'entusiasmo della giovinezza flirta con una forma di surrealismo, rimanda la fine del mondo e scarta l'impasse che incalza un Paese ancora spensierato ma a corto di benzina. In panne da qualche parte tra sogno americano e guerra in Vietnam. Ma Gary e Alana vincono l'inerzia e la differenza di età, che finiamo per dimenticare, scendendo per la china della 'collina'. Per loro PTA ricostruisce un mood, l'aria di un tempo che permetteva tutto a chi osava.
Se Gary è il fiammifero, Alana è la sua striscia di illuminazione. L'alchimia tra Alana Haim, che cancella gli anni come gli ostacoli, e Cooper Hoffman, concentrato di acne e magnetismo invisibile, è miracolosa. I loro personaggi si incollano al cuore e alla retina come liquirizia al palato, meno velenosa di un'omelette ai funghi, più leggera di una fodera in taffetà (Il filo nascosto).
L'emozione della performance dimora più sottile nel passaggio di testimone tra un padre e un figlio, tra un attore affermato (e scomparso troppo presto) e uno emergente, tra un'impressione e un'espressione di familiarità. Non appena Cooper Hoffman conquista il centro della scena pensiamo all'ingresso casual di Philip Seymour Hoffman in Boogie Nights o al ruolo più evidente del "re del materasso" in Ubriaco d'amore. È il mistero dell'incarnazione. Licorice Pizza si coniuga al passato senza cedere alla nostalgia, che gronda ma trascende in un viaggio nel tempo riuscito.
La New Hollywood non è morta e si sente molto bene. Se C'era una volta... a Hollywood ritornava sull' 'innocenza' dell'industria dei sogni per riscrivere la Storia coi poteri della fiction e perpetuare l'ideale hollywoodiano (e feticista) di Tarantino, Licorice Pizza abita un genere (il teen-movie) e un'atmosfera (gli anni Settanta) per rigenerare il cinema. A colpi di baci e di euforia scongiura lo spettro del suo declino, rigurgitando di slanci e di prime volte.
Come Spielberg (West Side Story) e Sorrentino (È stata la mano di dio), PTA riflette sul cinema e sul suo futuro tornando alla sua infanzia e alla San Fernando Valley, dove è cresciuto e dimorano già Boogie Nights, Magnolia e Ubriaco d'amore. Saldo al volante (come la sua Alana) conduce a ruota libera il suo racconto, si perde coscientemente per Los Angeles, scende a valle in folle e riparte 'per sempre' dall'essenziale: Gary e Alana, a scapicollo per le strade ripide di un percorso iniziatico effervescente. La marcia indietro epica di un 'grande camion', veicolo maggiore del cinema anni '70 (Duel, Il camion), che arriva incredibilmente a destinazione.
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