Regia: Paolo Genovese. Sceneggiatura: Rolando Ravello, Paolo Genovese. Fotografia: Fabrizio Lucci. Montaggio: Consuelo Catucci. Musiche: Maurizio Filardo. Costumi: Gemma Mascagni.
Interpreti: Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Margherita Buy, Sara Serraiocco, Gabriele Cristini, Giorgio Tirabassi, Lino Guanciale, Antonio Gerardi, Vittoria Puccini, Elena Lietti, Thomas Trabacchi.
Produttori: Gianni Nunnari, Marco Belardi. Distribuzione: Medusa. Origine: Italia 2023.
Che Paolo Genovese avesse chiuso con le commedie rassicurati, era già chiaro a tutti fin dai tempi di Perfetti sconosciuti. Tuttavia era difficile immaginare una svolta così cupa come in Il primo giorno della mia vita. Il nuovo film del regista, nelle sale dal 26 gennaio, affronta infatti di petto una serie di temi, uno più scottante e complesso dell'altro. Il primo è quello del suicidio (e abbiamo detto tutto), seguito a ruota da svariate domandone esistenziali come "cos'è la felicità?" e "Perchè vale la pena di vivere?" o anche "ci si può salvare da soli?". Il tutto condito da una copiosa dose di male di vivere, senza (per fortuna) il cotè di melò al quale ci ha abituato gran parte del cinema italiano. La storia ruota infatti a quattro persone che, per ragioni diverse, hanno deciso di togliersi la vita. A ciascuno di loro si presenta Uomo (chiamato anche "coso"), ossia una persona non meglio identificata che chiede di dargli sette giorni di tempo. Al termine della settimana, i suicidi potranno decidere se confermare la scelta che hanno preso nell'ultimo giorno della loro esistenza (ovvero uccidersi) oppure cambiarla, optando per la prima scelta della loro nuova vita (da qui il titolo). Per chi se lo stesse chiedendo: sì, il film è ispirato all'omonimo libro di Paolo Genovese.
"Il seme di questa storia è nato dopo aver visto il documentario The bridge - il ponte dei suicidi: il regista Eric Steel piazzò una telecamera in cima al Golden Gate Bridge riprendendo tutti i suicidi consumati là sopra. Poi è andato a intervistare chi era sopravvissuto al salto nel vuoto e tutti hanno raccontato di essersi pentiti in quei 7 secondi che cadevano nel vuoto", racconta alla presentazione stampa Paolo Genovese, "Quei sette secondi sono poi diventati i sette giorni nel mio film". La posta in palio è chiaramente molto alta tant'è vero che lo stesso regista ammette di aver riscritto "la sceneggiatura mille volte, buttando via interi capitoli: il rischio di essere banali, superficiali o ridondanti è sempre molto alto quando si parla del senso della vita. Tuttavia misurarci con qualcosa che ci allontana dalla propria confort zone è uno stimolo necessario per lavorare bene". Il cast inoltre è all star: nei panni dell'Uomo c'è Tony Servillo, mentre in quello dei quattro suicidi figurano un impeccabile Valerio Mastandrea, una Margherita Buy assolutamente in parte così come un'azzeccata Sara Serraiocco. Chiude il cerchio il piccolo Gabriele Cristini. Non sveliamo i dettagli sui loro personaggi perché parte del piacere del film è proprio entrare, in punta di piedi, nelle loro vite. "Fin dall'inizio ci siamo detti: occhio a non cadere nella retorica", commenta Mastandrea, "siamo stati mossi da un pudore, ossia dal desiderio di rispettare quel senso inspiegabile di perdita che una persona può incontrare nella propria vita. Mi sembra che ci siamo riusciti". Segnaliamo anche i camei di Vittoria Puccini e Lino Guanciale. A Mastandrea fa eco Paolo Genovese, secondo il quale Il primo giorno della mia vita è "diverso da The place: questa storia ha un impianto più realistico". Per certi versi, però, potrebbe essere "complementare a La vita è meravigliosa di Frank Capra: lì l'angelo della Morte mostra al protagonista il senso della sua nascita, qui invece viene mostrato come poteva essere il loro futuro. Non ho però voluto dare ricette o facili soluzioni, semmai ho mostrato che il gruppo e le relazioni sociali possono fare la differenza: insieme il dolore si divide e diventa meno insopportabile".
Quanto al risultato, be', sicuramente è una di quelle storie che ti costringono a riflettere (il che non è poco, di questi tempi). Usciti dalla sala avrete tra le 3mila e le 4mila domande esistenziali e ognuno si sarà commosso, per un motivo diverso o per una differente scena, nel corso della visione. Il film riesce infatti a toccare più corde, mostrando bene i vari volti del male di vivere. Il dolore viene passato sotto lo scanner della telecamera con un rigore chirurgico e autentico, meno invece la speranza. Non che questa non ci sia: anzi. Semplicemente però è un sentimento più vago. A tratti impreciso. Come se si facesse fatica a tirare, per davvero, le fila rifugiandosi in un finale che, se non può essere definito aperto, si presta sicuramente a più letture.
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