Regia: Amarsaikhan Baljinnyam. Sceneggiatura: T. Bum-Erden, Amarsaikhan Baljinnyam. Fotografia: Josua Fischer. Montaggio: Batsuh Baârsajkan. Musiche: Odbayar Battogtokh. Scenografia e Costumi: Bolor-Ėrdėnė Najdannyam. Interpreti: Amarsaikhan Baljinnyam, Tenuun-Erdene Garamkhand, Damdin Sovd, Davaasamba Sharaw, Tserendarizav Dashnyam, Delgersaikhan Danaa, Adiya Rentsenkhorloo. Produttori: Isabelle Glachant, Uran Sainbileg. Distribuzione: Officine Ubu. Origine: Mongolia, 2022.
Tulgaa è da tempo andato a vivere in città lasciando il villaggio nella campagna della Mongolia. Una telefonata lo avverte che il patrigno sta per morire e lui lo raggiunge. Dopo il decesso mantiene la promessa fattagli di portare a termine il lavoro di fienagione. Nei campi lo raggiungerà Tuntuulei, un ragazzino decenne che vive con i nonni. I due, poco a poco, impareranno a conoscersi. Amarsaikhan Baljinnyam, alla sua opera prima, offre l'occasione di conoscere nel profondo un mondo che raramente compare sui nostri schermi. Lo fa a partire da un romanzo di T. Bum-Erden scrivendo la sceneggiatura, dirigendo e interpretando il ruolo di Tulgaa avendo alle spalle una consolidata carriera di attore. Ha fatto così totalmente propria questa storia che chiede allo spettatore una disponibilità che poi sa ricompensare. Domanda cioè a chi guarda di dimenticare i ritmi e i tempi della narrazione cinematografica occidentale per lasciarsi immergere in un'area antropogeografica in cui la dimensione temporale assume modalità profondamente diverse. È in fondo ciò che deve fare il protagonista nel momento in cui lascia la città (scopriremo verso la fine del film qual è la sua professione) per ritrovare nella yurta in cui è cresciuto (e nello spazio sconfinato in cui è immersa) un modo di vivere (e di morire) che forse aveva pensato di potersi lasciare per sempre alle spalle. È un luogo in cui bisogna stare in piedi su un cavallo in cima a una collina per poter sperare di avere abbastanza campo per fare una telefonata così come le abitazioni sono davvero distanti le une dalle altre. Questo lascia ampi margini di solitudine che è poi la dimensione in cui Tulga si immerge per portare a termine il lavoro iniziato dal patrigno.
Si tratta però di una solitudine di breve durata perché di lì a poco l'arrivo di Tuntuulei cambierà profondamente non solo i ritmi della sua giornata ma anche il suo modo di guardare agli altri. Il ragazzino nasconde, dietro alla vivacità e anche a quel tanto di sfrontatezza che esibisce, una serie di sofferenze che cerca di esorcizzare raccontando, in primis a se stesso, una realtà immaginaria. Baljinnyam, grazie a questi due personaggi, riesce a mostrare la propria terra e le sue radici culturali ma anche a riflettere sul tema della genitorialità. Non è un caso che il film si apra con Tulgaa che riceve un messaggio vocale dalla donna che ama che gli rivela di avergli sino ad allora nascosto il fatto di avere un figlio. Lui a sua volta deve accorrere al capezzale di chi lo ha allevato senza essergli padre per poi sviluppare un rapporto che si apparenta alla genitorialità con Tuntuulei che ha i nonni come solo modello di riferimento adulto.
In un film che non si avvale di musiche che non siano diegetiche (cioè all'interno dell'azione) la partecipazione emotiva viene creata dagli sguardi, dai piccoli gesti, dalla disponibilità reciproca (ad esempio: ìl ragazzino che porta l'acqua a Tulgaa mentre lavora e lui che lo accompagnerà alla festa in cui i bambini lottano). Il titolo, anche nella versione italiana, è più che mai indicativo perché quell'ultima luna di settembre segna la fine dell'attività di fienagione e lo spettatore è portato a chiedersi che cosa ne sarà del rapporto sempre più strettamente affettivo tra i due. La risposta che Baljinnyam ci dà non è di tipo consolatorio perché vuole lasciarci uno spazio di lettura libera. Cosa accadrà dopo lo decideremo noi.
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