Regia: James Marsh. Sceneggiatura: Neil Forsyth. Fotografia: Antonio Paladino. Montaggio: David Charap. Interpreti: Gabriel Byrne, Sandrine Bonnaire, Maxine Peake, Aidan Gillen, Bronagh Gallagher, Fionn O'Shea, Caroline Boulton, Rebecka Johnston, Andrew Hefler. Produttori: Richard Mansell, Paul Ashton. Distribuzione: Bim Distribuzione. Origine: U.S.A., 2023.
Stoccolma, 1969. Ha vinto il Premio Nobel per la letteratura Samuel Beckett ma non sembra affatto contento. Sale sul palco, strappa bruscamente la busta dell'assegno e comincia a scalare le quinte e infilare un palco che diventa una galleria e poi un antro polveroso, dove il suo doppio lo attende. Insieme discutono chi meriterebbe davvero i soldi del premio, espiando la colpa, le tante colpe di una vita. Una lista di 'giusti' è stilata e inaugura i flashback. Dalla madre alla compagna, passando per un'amante o un amico perduto, Beckett ripercorre la sua vita: l'incontro con Joyce, la Resistenza in Francia, il teatro, il successo, il Nobel, la fine e il finale di partita. Chissà cosa avrebbe pensato Samuel Beckett di questo film delicato e sobrio sulla sua vita. Quasi certamente avrebbe apprezzato quel debutto surreale durante la cerimonia del Premio Nobel nel 1969.
Un espediente onirico per incontrare la sua coscienza nella 'soffitta' di un teatro fantasma dove scorrono i capitoli più scivolosi della sua vita, artistica e sentimentale. Declinato in cinque personaggi, a cui il film dedica un approfondimento, Dance First, Think Later ripercorre il mondo fittizio e quello reale dell'autore irlandese, che ha servito la resistenza francese e ha cavalcato intrighi amorosi. Senza asperità e senza immaginazione, a parte il segmento iniziale, James Marsh segue cronologicamente una traiettoria che conduce dall'infanzia alla gloria. Disegna in bianco e nero, non contempla i grigi e si colora nel capitolo finale.
Come fu per La teoria del tutto, le teorie dei suoi eroi, buchi neri o metafisica, sono secondarie per Marsh che preferisce focalizzarsi sulla loro vita privata e sui loro amori senza pensare con altri mezzi, i loro mezzi, che osavano l'impensabile e l'astratto, l'intuizione e l'abbandono. Il risultato è un biopic convenzionale che non si prende i rischi della letteratura di Beckett, il drammaturgo che strappava l'infinitesimo al nulla.
Il trattamento, un lavaggio ordinario e irrimediabilmente omogeneo, l'unica macchia è il tradimento di Beckett con la traduttrice e critica Barbara Bray, non va oltre i buoni sentimenti e qualche tribolazione per giustificare la vertigine e l'euforia della sua opera. Il rifiuto della figlia di Joyce, la morte dell'amico ebreo Alfred Péron, il tradimento della fiducia di Suzanne Dechevaux-Dumesnil, compagna della vita, sono pretesti per futili riflessioni condite con lacrime e sensi di colpa.
Meglio di Eddie Redmayne (La teoria del tutto), il suo 'method acting' è quello della mimesi, fa Gabriel Byrne, attore segreto ed elegante che regala al protagonista un bagliore, giocando con lo spazio, interrogando e provocando. L'attore, ben oltre il dialogo, come un personaggio di Beckett, utilizza i silenzi, riproporziona lo spazio e rimanda la morte.
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