Regia e Sceneggiatura: Margreth Olin. Fotografia: Lars Erlend Tubaas Øymo. Montaggio: Margreth Olin. Interpreti: Jørgen Mykløen, Magnhild Kongsjord Mykløen. Produttore: Margreth Olin. Distribuzione: Wanted. Origine: Norvegia, 2023. Genere: Documentario.
"Da quando ero bambina ho desiderato seguire i tuoi passi". Una voce over commenta la ripresa dall'alto di un uomo che si inoltra a piedi in un vasto paesaggio innevato. È la voce di Margreth Olin, documentarista norvegese nata nel 1970. L'uomo che procede con le bacchette da camminata nordica è suo padre, Jørgen Mykløen, amante della natura e suo punto di riferimento. Il genitore che, quando lei era piccola, invece di leggerle una storia, l'ha sempre portata fuori, a camminare, mostrandole come prendersi il tempo necessario per osservare la natura. Il paesaggio, protagonista del film, è quello, magnifico, della valle di Oldedaden, nella parte Sud Ovest della Norvegia. Nello specifico, del suo più grande ghiacciaio, il Jostedalsbreen. La regista torna per un anno, dopo una lunga assenza, in quei luoghi immersi in un silenzio raro, avvolti nella luce e nei riflessi dell'acqua e del ghiaccio, dove la natura si mostra in tutta la sua maestosità e onnipotenza. Lo fa per raccontare in immagini il riavvicinamento ai genitori, padre di 84 anni e madre di 9 anni più giovane, ancora innamorati, anche nel canto, e il difficile tentativo di adattarsi all'inevitabile trauma del distacco da loro.
Già in selezione al Festival di Toronto, La canzone della Terra è stato candidato dalla Norvegia come miglior film agli Oscar 2024 e tra i produttori esecutivi figurano Liv Ullmann e Wim Wenders. Scandito in capitoli che seguono le stagioni, dalla primavera all'inverno, è un incrocio particolare tra il documentario di osservazione e il ritratto familiare autobiografico. Monitorando l'evoluzione del paesaggio, Olin ripercorre anche una linea genealogica, che corre dal tempo degli avi fino al presente. Da una dimensione essenziale, dalle condizioni di vita estreme, fortemente dipendente dalla natura e dalla sua volontà incontrastabile, a un'era segnata dall'impronta umana, in cui ogni ecosistema è minacciato e deve essere preservato, in nome del rispetto dovuto alle generazioni precedenti e per la sopravvivenza della specie.
Non c'è immagine in La canzone della Terra che lasci indifferenti e tutte passano attraverso lo sguardo innamorato di Olin, a sua volta appreso da Jørgen, che le fa tuttora da guida tra i fiordi. Un ghiacciaio che si scioglie, slavine che tingono l'aria di bianco, cascate imponenti, vegetazione che continua a crescere e rigenerarsi, incurante. Come l'abete piantato dal padre di Jørgen, che si impone sulla vallata e ricorda il passaggio tra generazioni e il dovere di conservare ciò che la nostra specie ha ereditato.
La particolarità principale del film è appunto la connessione e l'oscillazione tra le immagini grandiose e gli aspetti personali messi in scena dalla regista, il rincorrersi tra la storia del mondo e di una famiglia. Tale lavoro di raccolta e accostamento si deve a cinque diversi direttori della fotografia (due dedicati ai droni, uno alle riprese subacquee) e a differenti droni che avvolgono le cime e sovrastano spazi enormi, ma anche a dettagli ravvicinatissimi di fiori ed epidermidi, corrispettivi umani delle cortecce vegetali. Perché la natura è un organismo vivente con dei limiti, esattamente come il nostro corpo.
Le macchine da presa di Olin abbracciano infatti il gigantesco e il minuscolo, l'immenso e il particolare con lo stesso sentimento di meraviglia, gratitudine e amore per tutto ciò che vive. Immergendoci in questo habitat unico e affascinante, il film insiste sulla relatività dell'umano, la sua assoluta irrilevanza all'interno di un sistema più ampio. Ma anche sulla sua disponibilità ad amare il pianeta, anche quando questo la respinge o le strappa le persone amate. In una miscela inestricabile di innegabile perizia tecnica e riflessione esistenziale, profondamente ecologica.
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