Regia: Gabriel Axel. Soggetto: Karen Blixen. Fotografia: Henning Kristiansen. Montaggio: Finn Henriksen. Scenografia: Sven Wichmann. Costumi: Pia Myrdal. Musica: Per Norgaard. Musica: Rob Simonsen
Interpreti: Bibi Andersson, Stéphane Audran, Jarl Kulle, Lisbeth Movin, Bendt Rothe, Preben Lerdorff Rye. Origine: Danimarca, 1987.
Vincitore Premio Oscar 1988 Miglior Film Straniero
Se un film trova posto, per la prima volta nella storia, addirittura in un documento pontificio, forse bisogna fermarsi un attimo a rifletterci sopra, o a preoccuparci per l’integrità dell’arte cinematografica. Scherzi a parte, quel film è Il pranzo di Babette (1987) di Gabriel Axel, citato nell’esortazione apostolica “Amoris laetitia” di papa Bergoglio. Il pranzo di Babette è ormai un classico sui generis, profondamente legato nella memoria collettiva a questioni in qualche modo extracinematografiche. Molta dell’attenzione per il film di Axel è stata infatti catalizzata dalla celebrazione (raramente così appassionata al cinema) dell’arte culinaria, tanto che il film si è spesso tradotto in oggetto più di costume che di reale riflessione filmica. Tale tentazione è comprensibile, visto che da metà del racconto in poi il film si concentra sull’attenta preparazione di un pranzo luculliano, che per gli amanti della buona cucina suscita invincibili desideri di imitazione.
In realtà il film di Gabriel Axel, che a 69 anni giunse a un’improvvisa notorietà internazionale dopo una lunga carriera tra cinema e tv srotolata tra Danimarca e Francia, deriva da un racconto di Karen Blixen, compreso nella raccolta “Capricci del destino” (1958), che da anni Axel vagheggiava di portare al cinema.
Nella sua forma filmica, Il pranzo di Babette si profila come una “fiaba storica”, collocata cioè in un preciso panorama storico-culturale ma dai contorni volutamente sospesi. Fin dall’ambientazione in uno sperduto villaggio sulla costa dello Jutland Occidentale, Axel sceglie infatti chiavi espressive all’insegna della sintesi allegorica, prosciugando gli elementi significanti all’interno di un sottile gioco ironico di condensazioni iperboliche. Così, l’incontro tra due universi (isolamento danese e mondanità francese) è imperniato sulla scelta di una comunità assolutamente blindata nei confronti dell’esterno, per ragioni culturali che s’intrecciano loro malgrado con ragioni meramente geografiche. Di fatto Il pranzo di Babette mira alla messa in scena dell’enormemente grande all’interno di un racconto enormemente piccolo, fatto di ripetitivi riti e abitudini quotidiane. Così come l’arrivo di Babette non è in alcun modo un’irruzione, ma una novità gentile e appartata, che rimane tale anche quando nella seconda parte si tramuta in innesco di tenui reazioni a catena.
Il passo narrativo di Axel rifugge i conflitti evidenti, adottando al contrario una sorta di graduale ascensione verso uno stato di grazia che prende l’avvio nell’interiorità dei suoi personaggi, per passi timidi e impercettibilmente progressivi. L’unica marca stilistica appena più evidente è l’adesione a una garbata ironia che fa ampio uso del primo piano, specie nella prima parte, per dare conto in chiavi lievemente grottesche di una comunità chiusa su se stessa e su una stretta osservanza luterana. L’arrivo di Babette nel villaggio è a sua volta narrato tramite strumenti fiabeschi, lo sbarco notturno di una straniera in una notte di pioggia che si muove in strada come un’apparizione. E altrettanto fiabeschi sono i due snodi principali del racconto: la vincita di 10.000 franchi alla lotteria che fornisce a Babette i fondi necessari per donare il pranzo ai propri ospiti, e soprattutto l’arrivo del carico di ingredienti, scaricati dal mare in terra come un piccolo corteo di uno zoo esotico per le lontane terre danesi. Ulteriore giro di vite sulla dimensione di fiaba è infine apportato dall’uso della voce narrante, almeno per la prima metà del film, che tramite la sua presenza spinge ancor più lontano, oltre ogni possibile cornice spazio-temporale, la collocazione del racconto.
In tutto questo, Axel si concede anche un’indovinata apertura inaspettatamente surreale nella sequenza onirica, in cui la trasgressione individuata nei piaceri del palato assume i tratti di un’esplosione dall’inconscio, laddove è confinato tutto ciò che si ritiene devianza e che potentemente deflagra davanti allo spavento per l’ignoto – in primis, un’enorme tartaruga destinata al brodo. In realtà tale cesura violenta nel racconto (l’unica dai tratti fortemente “scomposti” in una generale compostezza formale) si sposa a un linguaggio filmico che frammenta volentieri l’elegante superficie tramite inserti di dettagli perturbanti, concentrati perlopiù nella lunga preparazione del banchetto, dove il dettaglio visivo e anche (e soprattutto) sonoro spesso si colloca in un territorio ambiguo tra registrazione di una maniacale attenzione al proprio lavoro e segnale espressionistico.
Realtà e spirito, insomma, o se si preferisce abilità pratica e pura grazia. Imbastendo il racconto sulla dicotomia tra il cibo come semplice e spartano strumento di sopravvivenza (la rigida osservanza luterana) e una visione epicurea della cucina (il cibo è anche piacere, non solo nutrimento, e anche il piacere in ultima analisi è elevazione spirituale), Axel traduce in realtà tale materia narrativa in occasione di riflessione sul dono e sull’arte, due concetti strettamente intrecciati uno all’altro in un’ottica sacrale della creazione. Se il discorso sul dono si mantiene su toni evidenti (la cucina come massima espressione d’amore e devozione, poiché ci si occupa del bene più primario possibile: il nutrimento dell’altro), più sottile è invece il rovescio sull’arte, che trova forme del tutto declamate solo nel finale.
In sostanza, Axel e Blixen danno voce all’atto bifronte insito nella creazione artistica, dove la dimensione del dono resta sempre implicita ma rispondente anche, e soprattutto, a un’intima esigenza di espressione. La prima ad ammetterlo, nel finale, è la stessa Babette («Non l’ho fatto solo per amor vostro»): buona parte dei commensali, se pure lungo il pranzo vanno incontro a un progressivo ingentilimento dell’animo, probabilmente non hanno nemmeno capito quale meraviglia di pranzo si sono trovati a consumare. Ma per Babette ciò è secondario, resta prioritario l’atto in sé, aver avuto, per una volta dopo molti anni, la possibilità di esprimere la sua più intima abilità («Per tutto il mondo risuona un lungo grido che esce dal cuore dell’artista. Consentitemi di dare tutto il meglio di me»).
Chi è artista, insomma, rimane tale anche quando non si trova nelle condizioni per potersi esprimere, una conclusione che va a legarsi anche al percorso di Philippa, in gioventù recalcitrante rispetto alle proprie doti di cantante. Vi è infatti un terzo filone ancor più sotterraneo, a fianco di dono e arte, che percorre significativamente il film di Axel: una riflessione su scelta, rinuncia e responsabilità, nell’intreccio tra possibilità di vita non colte, mai oggetto di rimpianto ma tutt’al più di serena accettazione, e responsabilità verso se stessi.
MULTISALA NOVECENTO
Via del Cristo, 5 - 42025 Cavriago (Reggio Emilia)
0522 372015
P.IVA 00132130352
IBAN IT44C0103066290000000376274
RICEVERAI IN ANTEPRIMA LE NOVITA'
SULLA PROGRAMMAZIONE E SULLE PROMOZIONI ESCLUSIVE.