Regia: Mario Monicelli. Soggetto: Pietro Germi. Sceneggiatura: Leonardo Benvenuti e Pietro Germi. Fotografia: Luigi Kuveiller. Montaggio: Ruggero Mastroianni. Musica: Gianfranco Plenizio. Scenografia: Lorenzo Baraldi. Costumi: Giuditta Mafai. Interpreti: Ugo Tognazzi, Philippe Noiret, Gastone Moschin, Adolfo Celi, Duilio Del Prete, Bernard Blier, Olga Karlatos, Milena Vukotic, Franca Tamantini. Produttore: Andrea Rizzoli. Distribuzione: Filmauro. Italia, 1975.
Sinossi
Quattro amici sui cinquanta (qualcuno arrivato nella professione, qualcun altro ormai in disarmo, ma tutti con una voglia matta di rimanere giovani, di vivere una vita picaresca come da ragazzi) ogni tanto lasciano le rispettive occupazioni e si radunano per le "zingarate" (vagabondaggi, scherzi feroci, ragazzate). Finché uno di loro muore (anche se la moglie crede fino all'ultimo che si tratti di una beffa dell'incorreggibile personaggio).
Mario Monicelli riprende un soggetto che il povero Pietro Germi non aveva fatto in tempo a realizzare e lo traduce in immagini con l'abilità che gli è propria. Un bel film con notevoli interpretazioni.
Recensione
Nei titoli di testa si legge: “Un film di Pietro Germi, regia di Mario Monicelli”. L’autore di Divorzio all’italiana, Sedotta e abbandonata e Signori e signore, solo per nominare i titoli di maggiore impronta satirica, era morto da poco, così Monicelli e i suoi collaboratori pensarono di rendergli omaggio. Satira e humor nero, se il funerale, che a Germi appunto allude, è per i quattro cinquantenni una estrema occasione di irriverenza. D’altra parte, riferì Gastone Moschin, proprio il cineasta ligure, amante della satira e spesso capace di rivelarne il rovescio: l’amarezza, aveva all’ultimo pronunciato la frase: «Amici miei, ci vedremo, io me ne vado». Il film fu campione d’incassi nella stagione 1975/76, ed ebbe due seguiti.
Abbiamo davanti quattro cinquantenni toscani “poco cresciuti” che ogni tanto hanno bisogno di ingannare la noia facendosi “zingari”; infatti le loro burle in giro per la provincia, divertenti e non di rado crudeli, sono definire “zingarate”.
Lo stretto rapporto fra comicità e dramma, in molti casi con esiti di sicuro valore nella denuncia dei costumi nazionali, ha dato un carattere del tutto particolare, almeno nel periodo d’oro 1959-75, alla cosiddetta “commedia all’italiana”. Mario Monicelli, che arrivò alla Grande guerra, avendo alle spalle una carriera già lunga (fu tra coloro che lanciarono Totò sul grande schermo) è con ragione considerato uno dei maestri del “genere”. Suo è il perfetto I soliti ignoti, suoi La grande guerra, e il troppo spesso dimenticato I compagni. Con Amici miei tornò al clima che aveva vissuto da giovane in Toscana e, sul tipico cinismo delle burle, sarebbe tornato in seguito più volte; basti per tutti, almeno per il titolo, Parenti serpenti (1992).
Un po’ rimediato, e senza dubbio appendice del genere glorioso detto poco sopra, Amici miei stimolò comunque il bisogno del pubblico nazionale di vivere e rivivere nei propri difetti, e a tale scopo mise in campo una squadra di attori e caratteristi eccellenti, diversi dei quali (Moschin, Tognazzi, ma anche Mastroianni, co-protagonista neI soliti ignoti, che fu convocato e rifiutò) avevano diviso con Germi le proprie fortune.
Poco prima di andarsene Monicelli girò, nel 2006, Le rose del deserto, liberamente tratto da un romanzo di Mario Tobino. Per rara coerenza rispetto al grottesco funerale di Amici miei, volle chiudere col piano trattenuto di uno tumulo al centro dell’inquadratura: imitando l’amico Germi aveva voluto salutare.
Tullio Masoni
(Critico cinematografico)
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