Sceneggiatura: Renzo Martinelli, Pietro Calderoni. Fotografia: Blasco Giurato. Scenografia: Francesco Frigeri. Costumi: Luigi Bonanno. Musica: Francesco Sartori. Montaggio: Massimo Quaglia. Interpreti: Carlo Semenza: Michel Serrault, Nino Biadene: Daniel Auteuil, Tina Merlin: Laura Morante, Olmo Montaner: Jorge Perugorria, Mario Pancini: Leo Gullotta, Ancilla: Anita Caprioli. Durata: 111'. Distribuzione cinematografica: Istituto Luce. Origine: Italia, 2001.
------ Quando abbiamo a che fare con un'opera che sovrappone la forma esteticamente perfetta della finzione con la sproporzione di un evento realmente accaduto, posto ai limiti dell'irrapresentabilità, è difficile poter esprimere un giudizio che non produca a sua volta ulteriori incertezze. A maggior ragione oggi, dopo la strage delle Twin Towers. Un evento, quest'ultimo, che una volta di più ha decretato, da un punto di vista rappresentativo, la definitiva contaminazione tra gli orrori del mondo moderno e la spettacolarità delle immagini con le quali essi senza sosta vengono mostrati al pubblico. In quest'ottica, il film di Renzo Martinelli, Vajont, ci pone di fronte a interrogativi complessi perché non sappiamo fino a che punto il dramma di un'umanità può diventare il giusto soggetto per un'opera che vorrebbe essere anche impeccabile da un punto di vista stilistico e formale. Si è molto parlato, in questi giorni, del fatto che finalmente un film italiano è in grado di non temere il confronto con le produzioni americane. Indubbiamente, nell'opera di Martinelli sono presenti parecchi rinvii a un certo cinema: la scena iniziale e quella finale nel cimitero ricalcano per intero la retorica di Schindler's List e Salvate il soldato Ryan; la triste storia d'amore è simile a quella della sciagurata coppia di Titanic; l'effetto speciale della grande onda distruttiva non può che ammiccare ai grandi effetti speciali di Deep Impact. E potremmo continuare, ma queste citazioni sono già sufficienti a spiegare la capacità di Martinelli di saper produrre un film in puro stile hollywoodiano, con tutti i suoi pregi e difetti. Tuttavia, nelle intenzioni di Martinelli, c'è anche un chiaro riferimento al cinema d'impegno civile e politico. La tragedia che il 9 ottobre 1963 colpì gli abitanti di Longarone e dei paesi limitrofi rappresenta uno dei momenti più neri della storia italiana. Allora, procedendo nella nostra lettura senza la pretesa di dare una risposta definitiva ai quesiti posti nella premessa, proviamo a osservare in che modo il regista italiano prova a esprimere il proprio atto d'accusa, mettendo per un attimo in secondo piano il lato hollywoodiano del film. L'artificio, la natura e gli uomini, questi sono i tre elementi universali che Martinelli propone in una forma particolare: la diga, il monte Tok e gli italiani degli anni '60. Tutto ruota attorno dalla relazione che si instaura tra questi protagonisti. Da un lato la montagna vista come un elemento vivo e imprevedibile nelle sue reazioni, dall'altro il delirio d'onnipotenza di alcuni ingegneri e burocrati che per ingordigia e profitto vogliono dominare ciò che, invece, non può essere tenuto sotto alcun controllo. In mezzo la grande opera, la diga, il prodotto attraverso il quale la follia umana violenta la natura e gli uomini che essa ospita da sempre.