Sceneggiatura: Jay Cocks, Steven Zaillian e Kenneth Lonergan
Fotografia: Michael Ballhaus
Musiche: Peter Gabriel e Howard Leslie Shore
Scenografia: Dante Ferreti
Costumi: Sandy Powell
Montaggio: Thelma Schoonmaker
Interpreti: Cameron Diaz, Leonardo DiCaprio, Daniel Day-Lewis, Jim Broadbent, Henry Thomas, John C. Reilly, Brendan Gleeson
Stati Uniti - 2002 - 166'
"In apparenza la legge va sempre rispettata: soprattutto quando viene infranta": ci sono due spaventose battaglie che infuriano nell'ultimo, atteso, film di Scorsese, Gangs of New York, per la maggior parte girato negli studi di Cinecittà in Italia. La prima è in scena sin dalle primissime immagini. A metà del XIX secolo, a sud di Manhattan, si affrontano due bande armate di lame e mazze, come due tribù, proprio nella zona che per decenni fu la prima ad essere colonizzata dopo la scoperta della splendida baia che proteggeva i battelli dalle tempeste atlantiche e nella quale l'isola degli algonchini era immersa, placida come un cetaceo addormentato, prima che gli occidentali vi si insediassero. Potrebbero essere uomini del neolitico che si affrontano per la supremazia del territorio, si tratta invece di discendenti di immigrati che vogliono far piazza pulita degli immigrati più recenti, gli irlandesi. Potrebbe essere la preistoria per la violenza e il sangue e la barbarie con la quale si fanno a pezzi, invece siamo nell' 800.
Negli stessi anni, in Germania fiorisce l'idealismo, in Italia Verdi e Mameli sciolgono i cuori dei patrioti, in Inghilterra qualcuno inventa il motore a scoppio: a Five Points, il sobborgo infernale situato ad un passo da quello che diventerà il quartiere commerciale e finanziario più potente del mondo (Wall Street), un macellaio con un soldo in un occhio finto (Daniel Day Lewis) giustizia un prete irlandese (Liam Neeson), scannandolo come un maiale di fronte agli occhi del figlioletto.
La lotta aperta, lo scontro senza quartiere, l'arte della soppressione e mutilazione del nemico, hanno una gran parte nel film e anche nella storia di New York, visto che il film è tratto da una celebre cronaca dello stesso titolo scritta da Herbert Ashbury nel 1929, decenni dopo che si erano spenti gli echi di quella battaglia. Quanti calcano il suolo della Grande Mela oggi sanno di quanti strati di sangue e corpi diversi esso è costituito? E' questo l'assilo del regista, da anni celebrato come il più prestigioso autore vivente del cinema americano, come mostra nel bel finale in cui, dallo stesso angolo di cimitero, alla fine del più pauroso massacro che irrora le strade di nuovo sangue nel momento più buio della Guerra Civile, nel 1860, vede la città fiorire di ponti e grattacieli, fino all'immagine odierna. Ma non è da adesso che il suo occhio, a tratti inconfondibile, studia il persistere dell'etologia animale dietro le apparenze fittizie della civiltà. Dalle comunità italo-mafiose dei suoi film che formano una stirpe ed una autentica razza a parte, agli animali che si fronteggiano sul ring in Toro scatenato alle tribù della New York altolocata di L'età dell'innocenza, che fa quadrato intorno ai propri componenti che violano l'interdetto della decenza coniugale. Ogni mondo è diverso per forme, accenti e colori, ma in ognuno di essi trionfa la stessa forza di gravità per la quale il potere viene presidiato dall'unico linguaggio universale. La violenza.
Gangs of New York ne è completamente intessuto e nessuno nel film fa minimamente mostra di pensare che di essa se ne possa fare a meno, dai mille diseredati di Five Points (ladri, sfruttatori, assassini, prostitute, travestiti, furfanti, poliziotti corrotti) ai borghesi arricchiti, alle personalità istituzionali, agli agitatori e politicanti efferati (come il Boss Tweed che guida la Tammany Hall, il partito che, per anni, trasformò in regola la corruzione elettorale nella città). La legge dovrebbe essere ciò che allontana gli uomini dalla barbarie, ma nessuna ha la forza di regolare il conflitto più antico che ci sia. Chi possiede e abita un territorio, scaccia chiunque arrivi da fuori pensando di viverci. Ieri era l'uomo di Neandhertal, a New York, nell' '800, sono i miserabili irlandesi che sbarcano a frotte (decine di migliaia alla settimana), in fuga dalla carestia, dalla fame, dalla persecuzione: bisogna non avere incrociato con un tg qualsiasi da anni per pensare alle mille possibili analogie con ciò che accade sotto i nostri occhi, nelle migliaia di Five Points cui approdano i diseredati di tutto il pianeta.
Questo film fatto di bare, fiamme e coltelli, in cui la gente insegna a pugnalare senza colpire le costole per evitare di spuntare le lame e in cui i cani lottano contro mandrie di topi per restare vivi, ha la forza di rendere vivida questa idea con la stessa convinzione con la quale registi come Griffith o De Mille, hanno speso energie immani, in passato, nella convinzione che il cinema possa comunicare qualcosa di necessario e tremendo, di nobile e giusto. Scorsese racconta di un mondo così privo di luce, da non poter sognare alcun riscatto. Ma l'esistenza di questo film, dimostra invece che dallo schermo la luce può illuminare gli antri più bui e immondi della Storia.
C'è tuttavia un'altra battaglia che infuria nel film, ed è altrettanto incerta e drammatica quanto quelle raccontate nel film, anche se meno visibile. Si può ancora fare del cinema usando l'unico linguaggio di immediata popolarità conosciuto dalle tribù di adolescenti, ovvero quello dello scontro fisico che dai duelli della Playstation al Gladiatore, sembra essere l'unico vero catalizzatore immaginario in grado di garantire l'accesso alle menti di ogni spettatore? Si può rimanere autori personali di cinema, credere che con la macchina da presa si possa e si debba affrontare il caos del mondo e rappresentarlo senza semplificazioni o elementari mitologie e allo stesso tempo non farsi espellere dal grande mercato dell'entertainment?