Rabbit Proof Fence. Recinto a prova di coniglio. La traduzione italiana del titolo dell'ultimo film di Philip Noyce ha delle proprietà che raramente i titoli dei film possiedono: quella di offrire il senso del film e insieme ad esso l'intollerabile ingiustizia di cui racconta. Il film, infatti, ambientato negli anni trenta in Australia, innanzitutto ci informa di un imbarazzante precedente di quella che chiamiamo con goffa imprecisione civiltà occidentale. I bianchi costruirono un articolato recinto nel cuore dell'Australia per dividere e delimitare i territori popolati dagli aborigeni, ovvero la razza che dopo aver popolato il continente per cinquanta mila anni, se lo è visto strappare da individui di carnagione pallida, i quali disponevano di una tale considerazione di sé da rinchiuderli, come animali di natura inferiore, in un enorme zoo desertico e misterioso.
Tratto da una storia vera raccontata in un libro dalla figlia di una delle protagoniste, il film racconta dell'incredibile fuga di tre ragazzine meticce (metà aborigene e metà bianche) da una sorta di lager per bambini, nel quale venivano rinchiusi tutti i minori di sangue misto. L'ossessione delle istituzioni era infatti quella che gli intrecci tra le due razze portassero ad una contaminazione e diffusione dell'elemento aborigeno nella società contemporanea. Per questo praticavano operazioni di pulizia etnica come quella di strappare alle famiglie e alle madri i bambini meticci, per impedire che si accoppiassero di nuovo con sangue aborigeno. Un sangue che andava slavato fino a farlo completamente scomparire attraverso progressivi accoppiamenti con gli individui di pelle chiara, come illustra Mr. Neville, che ebbe in mano i destini di tutta la popolazione aborigena fino agli anni '40, interpretato da Mr. Kenneth Branagh che, privato dell'istrionismo marmoreo di cui è così prodigo nei film che dirige, è qui ad una delle sue interpretazioni migliori.
12mila miglia, in poco più di un mese, attraversando steppe e deserti. Perlopiù a piedi scalzi. Philip Noyce è un ottimo tecnico della tensione (Ore 10 calma piatta, Giochi di potere, Il collezionista di ossa), ma sarebbe un po' audace definirlo un autore nonostante i suoi film d'esordio (come Newsfront), lavoravano già vent'anni fa ad un revisionismo progressista della storia ufficiale e anglosassone dell'Australia. Ma la vibrazione colma di tremore e angoscia con la quale segue la fuga delle tre ragazzine, Josie (14 anni), Gracie (10 anni), e Daisy (8) in un territorio così assurdo e incomprensibile, fatto di sterminate pianure bruciate e praterie decolorate, superfici rugose istoriate da licheni ciclopici e colline isolate nel silenzio, è il sintomo tipico di uno sguardo coinvolto senza riserve in ciò che racconta. Le magmatiche percussioni della musica di Peter Gabriel, i paesaggi che sembrano appartenere ad un pianeta lontano, alimentano l'emozione silenziosa e fluida, che il passo inesorabile della fuga trasmette senza interruzione al film.
La scena in cui vengono strappate ai parenti, è straziante; la ricostruzione storica che spiega come le tre bambine finirono per diventare un caso nazionale, è condotta con cura e senza fanatismo, ma, soprattutto, la recitazione delle piccole protagoniste, senza lacrime, eccessi, esplosioni emotive, è il segno della risposta più potente che si possa dare ad una cultura che invade e pretende di possedere il tuo mondo come una malevola stirpe di alieni: la prima regola è quella di non concedere loro ciò che non possono in alcun modo strapparti, l'espressione delle tue emozioni. E' un principio che le tre bambine sembrano condividere con il loro peggior nemico, il cacciatore, anch'esso aborigeno, che gli occidentali mettono sulle sue tracce, interpretato da David Gulpilil, il più famoso attore aborigeno del cinema australiano dagli anni Settanta ad oggi
Due delle tre riusciranno a ritornare dalle donne della loro famiglia, proprio seguendo l'infinito recinto costruito dai dominatori anglosassoni ma, come racconta la vera Josie, ancora vivente, al termine del film, lei stessa dovrà subire l'incredibile dolore di vedersi sottratta una figlia che non vedrà mai più.
Presentato in anteprima a Taormina, il film ha toccato la platea del teatro greco che sui titoli di coda si è stretta intorno al regista, assediandolo con un lungo e affettuoso applauso.
(Mario Sesti)
Sceneggiatura: Christine Olsen.
Fotografia: Christopher Doyle.
Musiche: Peter Gabriel.
Interpreti:
Everlyn Sampi.
Tianna Sansbury.
Laura Monaghan.
David Gulpilil.
Australia - 2002 -