Ci sono attori che si specializzano in un gesto o in una espressione, o meglio, nella totalità di gesti ed espressioni che costituiscono la scrittura del loro racconto corporeo, ne possiedono uno che fanno in maniera assolutamente diversa da tutti gli altri. Forse tutti i grandi attori ne possiedono almeno uno.
Jack Nicholson, magistrale protagonista di About Schmidt di Alexander Payne, applaudito con convinzione e trasporto a Cannes 2002, sa, ad esempio, interpretare lo stordimento, l'opacità mentale e l'impaccio fisico del risveglio, come nessun altro: occhi spenti, immobilità prolungata, stupore assoluto. Nel film, dove interpreta un dirigente che, dopo essere andato in pensione ed essere diventato improvvisamente vedovo di una moglie che ha sopportato per 42 anni, è protagonista di una scena del genere più volte. Ed ogni volta è come se uscendo dal sonno, ogni mattina, si chiedesse cosa ci fa nella propria vita e che razza di persona è.
Dopo aver scoperto che la consorte defunta l'ha tradito con il suo migliore amico, tenta grottescamente di impedire che la figlia sposi un uomo che lui disprezza. In giro con un gigantesco camper, torna nel luogo dove è nato e vissuto da bambino e scopre che ora c'è un gommista, ritorna in ufficio ritenendosi ancora indispensabile ma gli fanno capire che è meglio che se ne stia alla larga. L'unico rapporto umano che riesce a stabilire è con un bambino della Tanzania, Ndugu, che ha adottato a distanza e al quale confessa con sconcertante sincerità tutta la sua rabbia e la sua solitudine in lettere di irresistibile comicità.
Payne, poco conosciuto in Italia (dove è passata senza essere notata una sua commedia tossica e mobilissima, Election) è, probabilmente, insieme a Spike Jonze e ai due Anderson (Wes e Paul Thomas) uno dei registi americani più interessanti emersi nelle ultime stagioni. Molto dotato nella scrittura (tanto che Spielberg l'ha chiamato anche a rimettere a posto il copione di Jurassic Park III), è un umorista sfaccettato e sarcastico il cui ossessivo obiettivo è l'assurda esistenza delle famiglie. Il risentimento, la morte del desiderio reciproco, i conflitti tra figli e genitori, la forza con la quale i congiunti si legano irreversibilmente l'un l'altro attraverso rapporti di affetto e disprezzo, sono gli aspetti che sa cogliere e portare a impressionanti e divertentissimi ebollizioni comiche.
Guidato con sicurezza e maestria da un Nicholson quasi settantenne dalle dita gonfie, la camicia piena ad altezza della vita, le palpebre a mezzaria e la bocca sempre semiaperta, il film tratteggia con maliziosa ricchezza uno spaccato americano di vita media e lontana dalle grandi metropoli, ma allo stesso tempo libera con sospetto scetticismo, al di sotto della brillante satira, una concezione spietata e vigile del destino di individui normali. Nessuno dei quali sarà mai troppo assopito da non risvegliarsi prima o poi e chiedersi, al proprio crepuscolo, che tracce potrà mai aver lasciato. Schmidt/Nicholson potrà contare solo su quelle che il piccolo Ndugu gli testimonia, in una inquadratura finale dolce triste che solo qualche secondo di durata in meno avrebbe privato di un retrosapore dolciastro. Come tutti i veri umoristi, Payne sa bene che ogni vera commedia affonda le proprie radici in un fondo nascosto di pietà e pessimismo.
(Mario Sesti)
Sceneggiatura: Alexander Payne, Jim Taylor.
Fotografia: James Glennon.
Musiche: Rolfe Kent.
Scenografia: Jane Stewart.
Montaggio: Kevin Tent.
Interpreti: Jack Nicholson, Hope Davis, Dermot Mulroney, Kathy Bates, June Squibb.
Stati Uniti - 2002 -