Licu è nato in Bangladesh, è musulmano, ha ventisette anni e abita a Roma da sei, in una casa in affitto con altre otto persone. Da poco non è più clandestino e per vivere lavora 12 ore al giorno: magazziniere in un laboratorio tessile la mattina, cassiere in un negozio alimentare la sera. Capelli alla Elvis, camicie griffate, tifoso della Roma, Licu sembra molto integrato. Riceve da sua madre la foto di una ragazza di diciotto anni; si chiama Fancy ed è la sposa che la sua famiglia ha scelto per lui. Licu ottiene solo quattro settimane di ferie non pagate per andare in Bangladesh e organizzare il matrimonio con una persona che non conosce. Ma al suo arrivo i negoziati tra le famiglie dei promessi sposi si complicano. Il Bangladesh è sommerso dall’alluvione più imponente degli ultimi cinquant’anni.
Le ferie di Licu è un film in bilico tra il documentario ed il cinema di finzione vero e proprio, realizzato senza una sceneggiatura e quindi in continua evoluzione. All'inizio delle riprese il regista voleva raccontare la storia di un ragazzo del Bangladesh sospeso tra ansia di occidentalizzazione e tradizionalismo, immigrato regolare che lavora dodici ore al giorno per mettere da parte qualcosa. Doveva quindi essere una storia di sfruttamento e speranza all'ombra della schizofrenia di chi si trova a vivere in un ambiente culturale diverso da quello di origine. Poi Licu riceve una lettera: i suoi genitori hanno individuato per lui una ragazza bengalese che il giovane dovrà sposare e
il film prende una piega diversa, diventando uno studio sul senso dell'amore e della libertà in una prospettiva diversa da quella alla quale siamo abituati.
Si può amare senza conoscere veramente qualcuno? Inoltre Licu, si sente costretto per via della sua educazione a lasciare la moglie a casa, impedendole non solo di lavorare (circostanza addirittura impensabile), ma di seguire corsi di lingua italiana e intrecciare rapporti di amicizia. C'è più di una scena in cui Fancy, la giovane sposa di Licu guarda dalla sua finestra sulla via del Prenestino: questo scorcio non è lo sguardo su un sogno o su un desiderio, ma una vista sull'impossibile e per Fancy l'emigrazione assume sempre più il sapore di una prigionia che rimanda continuamente la mente alla propria terra di origine, come in una specie di circolo vizioso. Moroni rifugge però da ogni intento etnografico o di colore, persino nelle sequenze ambientate in Bangladesh, e cerca di restituirci lo sguardo di questi non-attori che dichiarano con forza il loro disagio di fronte a un mondo che sta cambiando a velocità impressionante, lasciando gli uomini e le donne impreparati a tali trasformazioni.
Il film diventa allora un valido strumento per analizzare, studiare e capire meglio il fenomeno dell'immigrazione e le problematiche che vi sono sottese. Di fronte ad un cinema sempre raccolto su sé stesso e su quello che si presume il pubblico voglia, con la sua processione d'incontri romantici, tradimenti e amori liceali, si sta profilando sempre di più un'alternativa indipendente sia a livello artistico che produttivo. Vengono così realizzati dei prodotti che cercano di guardare in modo lucido e disincantato alla nostra contemporaneità, riprendendo una serie di tematiche apparentemente di moda, ma di cui, di fatto, non si parla mai abbastanza: diversità, integrazione, multiculturalismo e solitudine dell'individuo.
Soggetto: Vittorio Moroni. Sceneggiatura: Vittorio Moroni e Marco Piccarreda. Musica: Mario Mariani. Montaggio: Marco Piccarreda. Interpreti: MD Moazzem Hossain Licu, Francy Khanam, Giulia Di Quilio. Produttore: 50N Origine: Italia, 2006