David Cronenberg per la prima volta si allontana dal suo Canada per raccontare un film in cui, dopo “A history of violence”, torna a dirigere Viggo Mortensen. Questo “Eastern Promises” è un thriller compatto che, rispettando tutti gli stilemi del noir, racconta con incisività il peso che hanno le scelte sulla vita dell’uomo.
Anna, una ostetrica, riesce a far partorire una ragazza incinta, ma in fin di vita. Dopo la morte della giovane, per scoprire le origini del piccolo orfano e capire a chi darlo in affidamento, Anna comincia a fare delle indagini partendo da un diario segreto scritto in lingua russa. Scoprirà legami con la mafia...
In “Eastern Promises” il dramma non è mai urlato, i personaggi si muovono lenti, insicuri, e profondamente fragili, nello scenario che il destino ha tracciato per loro.
La pellicola è costruita intorno a due elementi. Abbiamo la bravissima Naomi Watts, l’ostetrica Anna idealista e impulsiva, che tenta di salvare la vita al piccolo motivata dal non essere riuscita a “salvare” il bambino che invece portava dentro di sé. E c’è Kiril, il figlio del boss, un intenso e commovente Vincent Cassel, che deve accettare le leggi che la malavita gli impone pur andando contro quelli che sarebbero i suoi veri ideali: amicizia, onore e rispetto.
In mezzo ai due troviamo un grande Viggo Mortensen, che tenta di assumersi il ruolo di ponte, ideale ed esistenziale, tra la vita di Anna e quella di Kiril. Il film, rispettando sapientemente i ritmi, i respiri e le atmosfere del genere noir, ci suggerisce che questa unione tra i due mondi è ancora possibile. Proprio lì dove, pare, non possa più esserci spazio per la misericordia.
Cronenberg, da sempre attento scrutatore del corpo per ricercarne all’interno la vera essenza dell’uomo, in questo “Eastern Promises” indugia con partecipazione registica sulle ferite del corpo, spesso avvenute da armi da taglio, e sul suono che queste lacerazioni provocano al contatto con la materia organica. Splendida a questo proposito, la scena “clue” del film in cui vediamo Viggo Mortensen combattere nudo in un bagno turco contro due mafiosi. Diretta con lucida emotività, la sequenza è una delle migliori scene d’azione degli ultimi anni per la capacità che ha di trasmettere il senso di violenza, sofferenza e resistenza di cui è capace il corpo umano. Da vedere.
Inoltre Cronenberg fa di più. Là dove non arriva con il “gore”, il regista canadese giunge con i ricordi, raccontati dai numerosi tatuaggi dei protagonisti.
L’atto del tatuare è già sinonimo di violenza - inteso come atto non previsto in Natura - che l’uomo infligge al proprio corpo. Qui l’autolesionismo si spiega come unico modo di trattenere la memoria delle proprie scelte. Il “ricordo”, infatti, di per sé è estraneo all’uomo che in natura è nudo e puro nel corpo come nella mente. Il tatuaggio diviene quindi l’allegoria dei segni indelebili che il “vivere” lascia nell’individuo. Solchi talmente profondi da non consentire, in ultima analisi, possibilità di tornare indietro e riacquisire la vera, originale, essenza umana.
Film complesso, teso, e sostanzialmente bellissimo. Dopo l’ottimo “A history of violence” Cronenberg firma un altro avvincente, ma non facile, film sull’incapacità di operare univocamente sulla propria vita e su quella degli altri. Profondo.
Soggetto e sceneggiatura: Steve Knight. Fotografia: Peter Suschitzky. Musica: Howard Shore. Montaggio: Ronald Sanders. Scenografia: Carol Spier. Costumi: Denise Cronenberg. Interpreti: Viggo Mortensen, Naomi Watts, Vincent Cassel, Armin Quelle-Stahl, Sinead Cusak. Produttori: Paul Webster, Robert Lantos. Distribuzione: Eagle Pictures. Origine: U.S.A. - Gran Bretagna, 2008. Durata: 97’