Della pittrice messicana Frida Kahlo quasi tutti sanno ormai quasi tutto: e non soltanto perché negli ultimi due anni solo in Italia sono usciti su di lei almeno tre libri ed è stata allestita più di una mostra, ma perché Frida, il film a lei dedicato dalla Miramax e dalla regista Julie Taymor, ha avuto la fortuna – come perfetto esempio dei gusti cinematografici del direttore Moritz De Hadeln – di inaugurare il 59° Festival di Venezia e di riempire le cronache della vigilia.
E dunque si sa della sua vita breve e tormentata, del suo fisico minuto e sofferente, del suo matrimonio col pittore muralista comunista Diego Rivera, delle sue frequentazioni politiche e intellettuali nello straordinario Messico degli anni venti e trenta, Tina Modotti, David Siqueiros e infine Lev Trotskij che andò ad abitare nella sua casa di famiglia ed ebbe con lei una relazione.
E si sa che il film lo doveva dirigere in un primo tempo il regista di La Bamba Luis Valdez, e che la parte di lei la voleva tanto fare Madonna che della pittrice aveva comperato un quadro, e che vi appaiono ora, oltre alla piccola Selma Hayek e al grosso e un po’ flaccido Alfred Molina (bravo, a rendere l’ambiguità di Diego Rivera: quando parla guarda sempre altrove) anche il divo Antonio Banderas– in un ruolo per la verità non memorabile – e la nostra international ministar Valeria Golino.
Quello che non ci è stato detto, in questo clima di scoperta hollywoodiana del genio misconosciuto - è che su Frida Kahlo esistevano già almeno tre film, uno dei quali, Frida naturaleza viva del messicano Paul Leduc, ha girato nei festival a metà degli anni ottanta mentre un altro è un film-saggio diretto nel 1983 dagli sperimentalisti inglesi Peter Wollen e Laura Mulvey, quando davvero Frida Kahlo veniva scoperta dall’intellighenzia europea in chiave politico-femminista. Ma è vero che su questo materiale vivo e ribollente di storia, arte e passioni la visione hollywoodiana mancava, e ora ce l’abbiamo, nel bene e nel male, nella ricchezza e nella ridicolaggine, nella profusione dei colori e nella povertà dei sapori (anche se si parla molto di cibo e si vedono molti pomodori, meloni, zucche e altra frutta e verdura molto colorata, perché il Messico del film è soprattutto quello scoperto dagli americani nei ristoranti messicani degli States).
Due lunghe ore di cinema in cui all’attività pittorica di Frida Kahlo sono riservati non più di dieci minuti, e si vedono forse una decina di quadri, e in cui invece è questione soprattutto di vicende d’amore e di gelosia, di famiglia e di società, ed appaiono, come nei più classici "biopic", molti personaggi famosi ("permette, le posso presentare il pittore Picasso?").
Tutto storico, tutto documentato, si capisce, ma non è detto che sia poi "storicamente corretto" mostrare Frida e Trotskij a letto che scopano, e che quando a lei viene tolto il gesso, dopo il grave incidente stradale che ha subìto, si debbano vedere, per prima cosa, le tette.
Un altro carattere obbligato dei film biografici sui pittori è che il regista debba rifarsi un po’ allo stile dell’artista, e dunque se si tratta di van Gogh mettere nelle inquadrature tanto giallo e blu notte, e se è Caravaggio tanti bei charoscuri. Così qui abbiamo, a intervallare il racconto della vita e degli amori, tre o quattro sequenze in quello stile tropical-surrealista che era di Frida Kahlo e che la fece apprezzare, fra i primi, da André Breton. Sogni e incubi popolati di mostri e di calaveras (gli scheletri del culto dei morti messicano), collages di modernità newyorkesi intrecciati con colori e folklori latini; busti, protesi e presidi ortopedici da horror surrealista. Ma il momento migliore del film – e la regista lo sa, e lo usa come cornice di tutta la storia – si ha quando, come nel vero surrealismo, racconto della realtà e delirio fantastico si fondono insieme. Quando cioè Frida, costretta dalla malattia a stare a letto, un letto con la testiera ornata di fotografie e immagini come un altare barocco e con cuscino e lenzuola ricoperti di ricami colorati, si fa trasportare così com’è, con letto e tutto, all’inaugurazione della sua prima mostra a cui non vuole assolutamente mancare. E’ fra l’altro l’unica scena in cui si è osato truccare l’attrice con quella abbondante peluria nera sul labbro superiore, diciamo pure baffi, che la pittrice non trascurava di dipingere nei suoi splendidi autoritratti. E qui, di fronte a questa madonna laica e coloratissima, a questa icona di un mondo fatto di festa e atrocità, di passione e di violenza, di ingenuità e mistero, abbiamo per qualche istante l’impressione di essere davvero davanti alla grande, inquietante, affascinante pittrice Frida Kahlo.
(Alberto Farassino)
Sceneggiatura: Clancy Sigal, Diane Lake, Gregory Nava, Anna Thomas. Fotografia: Rodrigo Prieto. Musiche: Elliot Goldenthal. Scenografia: Bernardo Trujillo. Costumi: Julie Weiss. Montaggio: Francoise Bonnot. Interpreti: Salma Hayek, Alfred Molina, Geoffrey Rush, Ashley Judd, Edward Norton, Antonio Banderas. Stati Uniti, 2002